Una settimana fa sono tornata a Bari, alla Scuola Open Source.
Dal 23 luglio sono iniziati i lavori dell’edizione 2017 del laboratorio di co-progettazione XYZ, che si concluderà oggi pomeriggio con la presentazione pubblica degli output finali dei tre gruppi, impegnati rispettivamente su:
- X comunicazione (tipografia, propaganda, UX, UI);
- Y strumenti (economie alternative, IoT, DIY, open data analysis);
- Z processi (debug, hacking, governance, community).
Quest’anno non mi occupo di didattica, come ho fatto durante XYZ2016, ma seguo insieme ad uno staff di altre 5 persone la comunicazione della Scuola. Ruolo insolito per me, che mi impegna a misurarmi con problemi nuovi. Anche questa volta, prima sperimento e poi mi interrogo sul percorso che ho intrapreso. Ormai ho capito che è la mia modalità per avvicinarmi a quasi tutto; forse è perfino il mio modo di imparare, non so.
Ecco perché alla Scuola Open Source mi sento a casa. Qui funziona esattamente questo modello educativo.
Il 28 luglio (scrivo la data per un motivo, che poi dirò) ho intervistato un tipo speciale, uno con cui ho fatto ufficialmente amicizia da un po’ di tempo a questa parte. Forse dovrei dire che, più che un’intervista, ci siamo fatti una chiacchierata. In effetti è andata così, abbiamo idealmente proseguito un lungo discorso, piuttosto articolato, iniziato tempo fa a distanza e che prosegue qua e là nei nostri rispettivi ritagli di tempo.
Massimo Banzi è una persona riservatissima ma anche cordiale, con cui si può parlare di tutto. Finora non abbiamo mai toccato neanche una volta l’argomento Arduino. Potrebbe sembrare incredibile, eppure è così. Il signor Banzi si tiene abbastanza lontano dalle nostre conversazioni private e devo dire che questo secondo lato del personaggio pubblico non è niente male, perché ci permette di spaziare anche su altro.
Così è andata anche per l’intervista.
I pirati della Scuola Open Source mi avevano lasciato alcune domande da rivolgergli, ma mentre formulavo la prima, appena lui ha iniziato a rispondere mi sono resa conto che il discorso ci stava portando altrove. Per fortuna (o purtroppo?) non sono una giornalista e posso permettermi di seguire il flusso dei pensieri del mio interlocutore senza incalzarlo su una scaletta precisa.
Che lavoro fai, Massimo? Definisci la tua attività e il campo in cui ti muovi.
Di formazione sono un interactive designer. Mi piace progettare strumenti che riescano a trasformare la tecnologia in uno strumento creativo e potenzialmente alla portata di chiunque. In fondo anche Arduino lo è, nel senso che rende l’elettronica semplice e per tutti. Mi piace pensare che è possibile rendere accessibile qualcosa che in realtà è e nasce complesso.
Hai usato il termine “creativo”: puoi darmi una definizione del concetto di creatività secondo te?
Per me è creativo chi ha un’idea, una buona idea, ma non solo. Serve anche la bravura e la tenacia per realizzarla.
Spesso succede che molte persone hanno ottime idee che vogliono realizzare ma solo poche poi ci riescono davvero.
A volte accade semplicemente perché non hanno modo di liberare e sviluppare la propria creatività.
Se ci fossero più strumenti per attuare tutto questo, se ci fosse un tempo e uno spazio di facilitazione di questo processo, ci sarebbero anche più persone rappresentate nel mondo.
Secondo te la creatività è una dote innata oppure la si costruisce?
Io credo che ognuno di noi nasca avendo e sviluppando delle idee, ma che poi ci sia chi sceglie di svilupparle e chi invece no. Qui si apre anche un mondo di considerazioni su chi si autoproclama creativo: esistono idioti autentici che pensano di essere dei geni, e poi invece persone di talento che non si rendono neanche conto del potenziale che hanno e che potrebbero sviluppare e condividere.
Esiste un modo per aiutare chi ha una buona idea a sviluppare la propria creatività?
L’unico modo per cambiare il mondo è l’educazione, secondo me.
“Il termine inglese education descrive molto meglio questo sistema, che comprende senza dubbio la scuola, ma anche tutti i contesti in cui si sviluppano azioni educative apparentemente non formali ma pienamente efficaci”
Penso anche che, parallelamente, siano sempre necessari dei role models, cioè delle persone con una forza evocativa forte, dei modelli positivi che facciano da ispirazione e traino per rappresentare il maggior numero possibile di persone. Penso ad esempio alla Maker Faire: se una ragazzina viene e vede un’altra ragazzina che in quel momento presenta un progetto innovativo, quest’ultima rappresenta immediatamente un modello per lei perché il processo di identificazione sarà immediato.
Educazione quindi è un concetto solo formale, solo non formale o entrambi?
È una combinazione di più fattori, perché nessun luogo formativo può esaurire da solo tutte le necessità educative.
Oggi leggevo di un tizio che si autoproclamava visionario affermando tra l’altro che la Khan Academy rivoluzionerà il concetto di scuola tradizionale e lo scalzerà definitivamente. Niente di più assurdo. Io credo che se non esistono insegnanti che si spostano fisicamente per andare a insegnare, se non ci sono alunni che escono di casa la mattina per andare ad imparare, la scuola non esisterebbe. Poi sono anche convinto che esistono luoghi, fisici e virtuali, non formali dove le conoscenze possono comunque essere sviluppate. I contesti informali sono ideali per sviluppare progetti in modo efficace perché permettono di sperimentare liberamente. Credo molto nel Project Based Learning, perché in un nostro progetto personale abbiamo interesse a portare le conoscenze e competenze che abbiamo acquisito nel nostro percorso formativo.
Se avessi un figlio e vivessi in Italia, lo iscriveresti alla scuola pubblica?
Sì, sicuramente, perché penso che dovrebbe passare del tempo a confrontarsi con ogni tipo di persona.
Io ho frequentato una scuola privata cattolica con un ambiente sociale selezionato e con un sistema educativo molto selettivo sulla base di principi non sempre inclusivi. Un luogo così apparentemente protetto però non aiuta a prepararsi per affrontare il mondo: i bambini e i ragazzi hanno bisogno di mescolarsi con persone di diverso tipo e diverse culture per poter crescere e imparare.
Cosa diresti a un ragazzo o a una ragazza che decide di lasciare l’italia (o di rimanere) per completare il proprio percorso di studi?
Secondo me è fondamentale trascorrere un periodo all’estero perché è l’unico modo per stabilire la giusta distanza dall’Italia e per imparare a guardarla in prospettiva, per acquisire un punto di vista diverso, più maturo e consapevole.
Al liceo avrei voluto trasferirmi un anno all’estero ma non ne ho avuto la possibilità; l’ho fatto in un secondo momento, anni dopo, trasferendomi a Londra. È un’esperienza che mi ha dato molto, sia sul piano umano che professionale.
Negli anni ‘40 mia nonna ha traslocato da Milano a Monza e le amiche la chiamavano la “forestiera”. Ecco, in Italia abbiamo sempre un po’ questa immagine, quella che chi va all’estero sia l’emigrante di un tempo, con la valigia di cartone... Il nostro cervello produce idee processando le cose sperimentate nell’arco della vita; più esperienze, più diversificate, aiutano ad arricchire le nostre idee e a farne nascere di migliori: il prodotto che esce dalla tua testa e il materiale che produci è anche un mix di discipline e culture diverse.
Che significato dai all'espressione Open Source?
Per me che lo vivo nel contesto della tecnologia, tutti gli artefatti derivano da progetti con una documentazione sulla quale gli eventuali cambiamenti andrebbero di prassi comunicati e condivisi.
In Italia purtroppo l’Open Source è un’idea legata al concetto di contenuto gratuito e chi decide di rilasciare qualcosa in open source è considerato fondamentalmente un ingenuo, uno sprovveduto che butta via il proprio lavoro. Ma solo perché c’è un contesto in cui le idee vengono letteralmente rubate o non riconosciute con i dovuti crediti.
“L’Open Source funziona, e bene, se ci sono delle regole. Posso decidere di condividere al mondo quello che ho fatto ed è giusto che gli altri accettino delle regole condivise”
L’Open Source funziona se ci sono persone responsabili che collaborano e si rispettano tra di loro, dando tutte un proprio contributo. Il sistema della scienza funziona così ad esempio, gli scienziati sono abituati a condividere il risultato dei propri studi con la comunità scientifica internazionale, che a sua volta aggiunge nuovi contributi.
Per me condividere in Open Source è importante: mi aspetto che chi utilizza il mio progetto, una volta condiviso, lo usi per realizzare qualcosa di positivo che possa migliorare la vita delle persone. Inoltre la condivisione mi aiuta a migliorarlo e a farlo diventare un bene comune.
Come immagini una Scuola Open Source?
Forse è davvero possibile progettare una scuola open source, con corsi e materiali educativi disponibili per essere utilizzati e ricondivisi.Molte persone potrebbero contribuire, anche se non iscritte o non presenti fisicamente durante le lezioni o le attività. A Ivrea, all’Interaction Design Institute, usavamo un modello tutto sommato di questo tipo: ogni anno ci incontravamo con gli altri docenti e ci impegnavamo a riprogettare tutti insieme le attività.
Io personalmente ho sempre pubblicato tutto il materiale che producevo e utilizzavo durante le lezioni e mi fa piacere che alcune persone si siano ispirate ai miei corsi per progettarne di nuovi.
Molti ti indicano come uno dei padri del movimento maker, cosa ne pensi di tuo “figlio”?
Il movimento maker non è arrivato da zero; di gente che imparava per conto proprio la tecnologia ce n’è sempre stata.
Poi è nata questa definizione, che viene declinata in modi diversi a seconda dei luoghi in cui viene utilizzata.
“Io ho aderito a questo modello perché volevo creare degli strumenti che aiutassero le persone a fare delle cose in modo semplice e accessibile”
Alla Maker Faire in California oggi la spinta propulsiva si è appiattita e rallentata, con grande delusione da parte di molti di coloro che avevano aderito fin da subito. All’inizio eravamo un gruppo di persone con idee simili e condivise, con grande rispetto reciproco ma, come spesso accade, quando un movimento inizia ad allargarsi alla partecipazione di molte persone, si allarga anche una fetta importante di mercato e aumenta il rischio che entrino persone che abusano di un’idea genuina. Al momento credo che il movimento maker potrebbe avere il coraggio di attuare dei cambiamenti importanti ed evolversi.
Il tempo a disposizione per la nostra chiacchierata è finito; a distanza di qualche ora, come mi aveva anticipato giorni fa senza rivelarmi di cosa si trattasse, Massimo twitta: https://twitter.com/mbanzi/status/890984661626880000
È diventato ufficialmente il nuovo Presidente e CTO di Arduino, chiudendo così una lunga trafila sul brand e forse anche su quello strano concetto di open source che proprio sembra non funzionare.
Il sole è ancora alto su Bari, la cattedrale splende bianchissima. I vicoli della città vecchia brulicano di bambini, discussioni in dialetto e orecchiette fatte a mano all’Arco Basso.
Tra poche ore ripartirò portandomi a casa il sapore e la bellezza di #XYZ2017.
Intervista a cura di: Agnese Addone
Isolato 47, Città vecchia di Bari, 1 agosto 2017