Oggi voliamo a Boston per intervistare Carlo Ratti, architetto e ingegnere, autore del libro “Architettura Open Source” e direttore del MIT Senseable City Lab di Boston. Laureato presso il Politecnico di Torino e l’École Nationale des Ponts et Chaussées a Parigi, ha conseguito un Master in Philosophy e un PhD in Architettura (e informatica) all’Università di Cambridge, in Inghilterra.
La rivista Esquire lo ha inserito tra i “2008 Best & Brightest”, Forbes tra i “Names You Need to Know” del 2011, Wired nella “Smart List 2012: 50 people who will change the world”. Fast Company ha nominato Carlo Ratti tra i “50 Most Influential Designers in America”, Thames & Hudson tra i “60 innovators shaping our creative future”, Blueprint Magazine tra le “25 People Who Will Change the World of Design”.
È stato relatore al TED nel 2011, curatore del “BMW Guggenheim Pavilion” di Berlino nel 2012, direttore didattico allo Strelka Institute for Media, Architecture and Design di Mosca ed è stato nominato “Inaugural Innovator in Residence” dal governo del Queensland. È anche membro dell’Italian Design Council e del World Economic Forum Global Agenda Council for Urban Management e sostiene il nostro progetto: La Scuola Open Source.
Come è stata la tua esperienza con la scuola? (come studente o come insegnante)
Il mio percorso scolastico è stato un po’ insolito. Al liceo la scuola era spesso un alibi – un dovere da portare a termine per poi occuparsi di “altro’. A volte questo “altro” era in ugualmente legato alla conoscenza ma non faceva parte del curriculum tradizionale. Anzi, era una specie di ribellione verso l’ordine costituito. Qualcosa di simile accadde anche durante gli anni dell’università, passati alla continua rincorsa di interessi diversi. Prima la laurea in ingegneria al Politecnico di Torino e all’Ecole des Ponts di Parigi, poi la specializzazione in architettura (e informatica) all’Università di Cambridge. Oggi vivo il sistema universitario dall’altra parte della barricata, come professore al MIT. Ma proprio per questo cerco di incoraggiare gli studenti a staccarsi dalle strade battute e cercarne di nuove, spesso ai confini con altre discipline. La conoscenza, infatti, arriva dalla diversità.
Molto spesso è a partire dal confronto con qualcosa di dissimile che apprendiamo. Per questo nella mia classe al MIT ci sono studenti che arrivano da percorsi formativi, luoghi, esperienze, culture diverse. Lo stesso avviene al Senseable City Lab – un laboratorio di ricerca sulla città dove si trovano fianco a fianco ingegneri, architetti, matematici, sociologi e studiosi di molte altre discipline.
Raccontaci la scuola dei tuoi sogni
Innanzitutto una scuola libera. Estremamente meritocratica ma non coercitiva. Penso alla bella riflessione di Einstein per cui “la curiosità è una piantina delicata che, a parte gli stimoli, ha bisogno soprattutto di libertà”.
In secondo luogo credo che la facilità di accedere alla conoscenza – Internet da questo punto di vista è stato rivoluzionario – ci permetta di studiare in modo nuovo. Non seguendo un libro di testo pre-compilato, summa di una determinata disciplina, bensì andando a recuperare quegli elementi necessari alla risoluzione di un problema. Una scuola laboratorio dove si cerchi – insieme – di dar senso ai grandi problemi pratici o teorici dell’esistenza.
Infine una scuola di confine: in cui la ricerca del nuovo prevalga sullo studio di quanto è stato già scoperto. E che instilli più dubbi che certezze.
Come immagini una “scuola open source”?
Una scuola in cui ciascuno sia docente e discente. Una scuola in cui le dinamiche peer-to-peer, alla pari, sia almeno importanti come quelle che vengono dall’alto. Da questo punto di vista c’è un bell’esperimento a Parigi – Ecole 42.
Una scuola aperta 24 ore su 24 e 7 giorni su 7. Una scuola in cui non ci sono corsi magistrali, ma dove gli studenti sono liberi di organizzare le loro giornate al fine di portare a termine i progetti proposti dal team didattico.
A correggerli ci sono gli altri studenti, in un controllo incrociato. E soprattutto sono organizzate conferenze e incontri.
In questa logica di condivisione anche lo spazio fisico diventa importante. Ne immagino uno flessibile, in cui le aule non sono solo luoghi per lezioni frontali. Al posto, una scuola di laboratori, di aree di incontro, di gioco. Uno spazio dove i servizi e gli strumenti sono condivisi, come nei FabLab – fabrication laboratory.
Ecco, immagino la scuola open source come un FabLab di coscienze.
Abbiamo cercato di creare un ambiente di questo tipo lavorando con la Fondazione Renzo Piano al progetto per la ricostruzione della scuola di Cavezzo – uno dei comuni più colpiti dal terremoto in Emilia. Lo spazio che abbiamo costruito ha un forte carattere relazionale, in cui poter svolgere molteplici attività in modo flessibile. In continuità visiva con gli spazi delle due scuole esistenti, con la nuova palestra e con l’ambiente circostante, l’area tra le due scuole è diventata una grande serra abitata, dove trovano posto – tra gli alberi – laboratori, una sala polivalente e gli spazi di collegamento. Abbiamo chiamato questo progetto Learning Garden – un giardino dove far crescere idee.
Cosa cambierebbe se esistesse una “scuola open source”?
Credo che introdurrebbe un’accelerazione nella produzione e trasmissione della conoscenza – grazie anche al maggior entusiasmo con cui gli studenti si lancerebbero nello studio.
Potendo ripensare il modo in cui si trasmette la conoscenza nella scuola, come lo ripenseresti?
Sognerei un mondo in cui scuola e lavoro diventino la stessa cosa – quasi un gioco che ci accompagna per tutta la vita. Mi piace l’idea di Constant Nieuwenhuys, che, pensando a un futuro in cui le macchine ci avranno affrancato dalla schiavitù dal lavoro, immagina una dimensione ludica al centro delle nostre vite.
“Nella città globale del futuro […] una società ad automazione totale, il bisogno di lavorare è rimpiazzato da una vita nomade di gioco creativo, un moderno ritorno all’Eden. L’ ‘homo ludens’, quello che l’uomo diventerà una volta liberato dal lavoro; non dovrà fare arte, potendo essere creativo nella sua quotidianità.”
Cosa significa “fare ricerca”?
Noi facciamo soprattutto ricerca applicata, che per me significa cercare di cambiare lo status quo. Essere curiosi rispetto a nuove soluzioni che in ultima analisi possono migliorare l’ambiente in cui abitiamo.
In che modo credi che le tecnologie possano aiutarci a costruire un mondo migliore?
Credo che le tecnologie siano strumenti necessari all’attività del designer, che si trova ora a che fare con un mondo ibrido, composto da bit e atomi. Strumenti necessari per poter pensare all’interfaccia tra noi e il mondo che ci circonda. È importante che il design sia rivolto al futuro.
Credo che gli architetti debbano guardare più al futuro e partecipare a quello che chiamiamo il Futurecraft. Come scrisse Herbert Simon,
“Le scienze naturali si preoccupano di come le cose sono (..) Il design, invece, si preoccupa di come le cose dovrebbero essere, progettando artefatti per raggiungere certi obiettivi (..) Chiunque progetti corsi d’azione con l’obiettivo di trasformare le situazioni esistenti in situazioni auspicabili, è un designer”. (Herbert Simon, The Science of Design, 1988).
Credo che i designer debbano sfidare l’esistente di oggi, introdurre nuove possibilità alternative, e infine spianare la strada verso un futuro auspicabile. Non è diverso dal framework concettuale del ‘design speculativo’ – proposto da Anthony Dunne e Fiona Raby al Royal College of Art – un processo che non cerca né di risolvere problemi né di predire il futuro. Piuttosto,
Intendono il design come un “catalizzatore per ridefinire collettivamente la nostra relazione con la realtà”, supponendo come le cose potrebbero essere.
Ancora prima, la Comprehensive Anticipatory Design Science (CADS) di Buckminster Fuller è stata un approccio sistematico al design, “per risolvere problemi introducendo nuovi artefatti nell’ambiente, la cui disponibilità indurrà lo spontaneo utilizzo degli stessi da parte degli uomini e quindi, simultaneamente, farà sì che gli uomini abbandonino i loro precedenti strumenti e comportamenti che erano causa dei problemi”. Fuller credeva che il design potesse trainare gli uomini verso un futuro più luminoso (o, per metterla in termini leggermente più arroganti, “io mi limito a inventare, poi aspetto che l’uomo inizi ad avere bisogno di quello che ho inventato”).
Ad ogni modo, credo che il designer debba essere uno spacciatore di idee astratte. È cruciale che il lavoro sia reso tangibile – non necessariamente creando prodotti e sistemi completamente funzionali – ma concetti dimostrabili che promuovano interazione e dibattito. L’obiettivo del design è di generare alternative e aprire nuove possibilità.
L’”eggregora” così generata può proiettare idee nel futuro ed accendere la scintilla dello sviluppo; ne consegue che il nostro lavoro sia privo di significato se non quando attiva l’immaginazione.
Su scala urbana, questo riguarda ogni e ciascun cittadino.
Vivere nello spazio e creare lo spazio vanno mano nella mano. Un sistema non ha bisogno di essere interamente sviluppato, implementato e di avere successo / fallire – se testato, possiamo valutare la sua desiderabilità prima di sprecare risorse, accelerando così il futuro. In un discorso più ampio, questo rende il design un qualcosa che produce evoluzione – dove cambiamenti positivi attivano lo sviluppo in maniera anch’essa positiva. Infatti, le specie biologiche fanno essenzialmente lo stesso, su un arco temporale straordinariamente lungo. Mutazioni casuali sono trasferite da un organismo al successivo, e se la mutazione ha successo, l’organismo avrà più probabilità di riprodursi. I cambiamenti migliori vengono incorporati nella specie, che, col tempo, si evolve.
In un’opera fondamentale del 1863, Darwin Tra Le Macchine, Samuel Butler propose questa analogia elementare, sostituendo ‘organismi’ con ‘artefatti’ e permettendo così che il regno sintetico fosse classificato in generi e specie, una sorta di ‘albero evolutivo degli oggetti’. Continuando l’analogia, il designer diventa quello che, in biologia, è definito ‘mutageno’ – un agente che produce mutazioni.
Delle specifiche opere di design migliorano una funzione o rendono possibile un nuovo processo, e su larga scala, guidano collettivamente il cambiamento e lo sviluppo del mondo sintetico.
Questo è quello che chiamiamo “costruire il futuro” (Futurecraft).