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Introduzione

L’obiettivo principale di questo corso è l’introduzione alle teorie ed ai metodi dei Visual studies. Si tratta di un raggruppamento di discipline eterogenee (iconografia, antropologia, cultural studies, filosofie dell’immagine, estetica, psicanalisi, media studies) che collaborano alla produzione di un campo del sapere autonomo, dotato di una sua metodologia e di un nutrito gruppo di autori ed autrici di riferimento. L’ambito dei visual studies nasce negli anni ’80 e ’90 e si consolida nei primi 2000, anche se la sua genealogia andrebbe fatta risalire alla nascita del metodo iconografico adottato da Aby Warburg e dagli storici dell’arte che hanno lavorato presso il Warburg Institute agli inizi del ‘900. Questa genealogia è frutto di una scelta del docente del corso, altre partizioni disciplinari ed altre metodologie sono state escluse per ragioni di semplicità e chiarezza.
Rispetto alla caratterizzazione generale del corso, si è scelto un approccio politico e culturale di analisi dell’immagine, che si distingue sia da quello estetizzante della storia dell’arte sia da quello biologico-evoluzionistico della neuroestetica. Per questo, nonostante si sia tenuto conto sia degli aspetti iconografici sia di quelli psicologici e biologici della produzione e della percezione delle immagini, l’impostazione generale dei problemi e delle metodologie è legata principalmente alle human sciences. Di seguito verranno riassunte schematicamente le quattro parti del corso, che costituiscono, sinteticamente, la totalità delle problematiche e delle metodologie abbracciate dai visual studies nelle loro teorizzazioni più recenti.

Riconoscimento, Iconografia, Emblemi, Imprese, Magia, Astrologia, Arti della Memoria

Il problema del riconoscimento di un’opera d’arte, lo studio delle variazioni storiche e culturali degli stili, il lavoro di interpretazione delle influenze e delle migrazioni di simboli ed allegorie rientra in quella sottocategoria della storia dell’arte che è stata definita iconografia, a partire dal lavoro seminale di Cesare Ripa. La ripresa novecentesca da parte di Panofsky del metodo di Ripa negli Studi di Iconologia e ne Il significato delle arti visive ha permesso l’istituzione di un metodo filologico volto alla decifrazione delle influenze iconiche e testuali dell’arte classica (Greca e Romana) nella produzione artistica del Rinascimento italiano e nord-europeo. Lo schema di Panofsky identifica tre livelli di riconoscimento dell’immagine: pre-iconografico (identificazione degli oggetti legato alle norme della psicologia della percezione ed a quelle culturali della prospettiva), iconografico (individuazione dei soggetti e temi, personificazioni, simboli ed allegorie), iconologico (connessione fra la singola opera e la totalità delle produzioni culturali di un’epoca). Questa indispensabile armatura metodologica consente allo storico dell’arte di scorporare l’immagine in un insieme di elementi discreti. Centrali, in questo senso, sono le nozioni di personificazione, intesa come rappresentazione di un concetto astratto in forma visiva (generalmente una figura antropomorfa dotata di attributi), quella di simbolo (o attributo), ovvero l’oggetto artificiale, la pianta, l’animale o ancora, la figura antropomorfa legata ad una personificazione che ne permette l’identificazione e quella di allegoria: un insieme di personificazioni che devono essere lette nella totalità dei loro rapporti e non singolarmente.

Certamente il metodo iconografico presenta delle complicazioni, che Gombrich ha più volte denunciato: l’arbitrarietà della ricerca del significato profondo (terzo livello dello schema di Panofsky) ha spesso condotto gli storici dell’arte ad attribuzioni scorrette, sovrainterpretazioni, atteggiamenti irrazionali nei confronti di una metodologia che si vorrebbe filologia e scientifica. Questo perché, come è emerso nel corso dell’esposizione della prima parte del corso, l’interpretazione dell’immagine è solo uno dei possibili atteggiamenti nei confronti della sfera del visibile; Gombrich (ed assieme a lui anche Umberto Eco) ci ricordano che esiste, già a partire dal Neoplatonismo, un diverso approccio all’immagine – irrazionale, magico, paranoico, che si esprime nelle credenze legate al potere delle immagini, e come ricerca di una “fonte originaria” del simbolismo. I vari studi di Jung sul rapporto fra archetipi dell’inconscio collettivo e raffigurazioni visive (alchimia, induismo, astrologia, etc…) costituiscono un esempio paradigmatico di questo stile: piuttosto che portare attenzione ai rapporti storici, letterari e culturali implicati nella produzione delle immagini, ci si fa affascinare dalla natura misteriosa, inesprimibile ed enigmatica delle immagini simboliche prese in sé, decontestualizzate e rese autosufficienti. A questo punto le immagini diventano portatrici di messaggi segreti (come i geroglifici di Oropallo), influenze occulte (come nei manuali di magia o astrologia medievali) o semplicemente come indici della connessione globale dei fenomeni del micro-cosmo (l’uomo) con il macro-cosmo (l’universo) nella dottrina delle segnature.

È necessario integrare alla descrizione iconografica l’apporto dei cultural studies, dei postcolonial studies e dei gender studies per sottolineare gli aspetti conflittuali di razza, classe e genere nell’interpretazione delle immagini. In questo senso i contributi di Pierre Bourdieu, di Laura Mulvey e di Stuart Hall permettono di decostruire il “regime scopico” dell’arte (approssimativamente dal medioevo all’800). Anche le critiche di John Berger (si veda Way of Seeing) rispetto al razzismo, maschilismo e classismo del medium della pittura ad olio risultano essenziali per decostruire i metodi di esposizione ed analisi della storia dell’arte.

Si può affermare senza dubbio che la semiotica dell’immagine abbia contribuito alla diffusione ed al raffinamento delle tecniche di analisi del significato iconografico ed iconologico (si vedano le proposte di Barthes, Eco, Greimas e Damish). L’interesse della semiotica per i nuovi mezzi di comunicazione (fumetti, televisione, pubblicità, pop culture) ha consentito il transito delle metodologie dell’iconografia nel più vasto ambio delle immagini in genere. Secondo una canonizzazione piuttosto recente nell’ambito dei visual studies, l’immagine deve essere considerata nella sua complessità mediale e spettatoriale, da cui la triade: immagine, sguardo, medium che permette di caratterizzare ogni produzione visiva nella sua componente iconica (l’immagine), materiale (il mezzo sulla quale essa è inscritta, dalla pelle agli schermi) e nel suo aspetto di ricezione – lo sguardo, appunto – che risulta connotato sia da una pluralità di atteggiamenti (indagativi ed operativi) sia da una pluralità di aspetti antropologici, sessuali e di classe.

Nel tentativo di fornire un compendio delle tendenze e delle metodologie legate allo sviluppo dei visual studies, non si può non constatare la preminenza del periodo storico che va da Rinascimento al Barocco per quanto riguarda la nascita di dispositivi tecnici e di discorsi sulla produzione e la ricezione delle immagini: dalla teoria dell’immaginazione di Marsilio Ficino, alla codificazione dell’artista come agente sociale autonomo e non legato ad una bottega, allo sviluppo di una teoria scientifica della prospettiva, sino alla costruzione di specifici meccanismi della visione come microscopi, telescopi e strumenti cartografici.

Nel ‘600 oltre all’Iconologia di Cesare Ripa abbiamo la diffusione di libri a stampa connessi con l’emblematica (Alciato), le imprese (Giovio), le arti della memoria (che però fanno parte di una tradizione medievale), i testi di astrologia tradotti dall’arabo ed infine i testi di magia (Giordano Bruno, Cornelio Agrippa e Dalla Porta). Questo archivio di materiali iconografici eterogenei è molto importate per comprendere il ruolo attivo che le immagini potevano avere agli albori dell’epoca moderna: quello di alterazione della realtà fisica e psichica che caratterizzava le figure e gli schemi dei libri di magia ed astrologia, o quello di propaganda politica legato ai libri di emblemi. Le arti della memoria, invece, attraverso il legame che istituiscono fra immagini e spazio, permettono di stabilire una archeologia del discorso visivo della pubblicità. Libri di magia, emblemi, imprese ed arti della memoria sono la traccia discorsiva e visiva di un immaginario oggi diffuso nei metodi della propaganda politica, dell’immagine pubblicitaria ed in generale nel vasto ambito dello storytelling.

Migrazione, Teorie del simbolo, Mnemosyne, Lavoro onirico, Retorica dell’immagine

L’analisi della migrazione dei temi figurativi, dei simboli e degli stili ha caratterizzato la maggior parte delle ricerche legate al Warburg Institute. In questo secondo modulo si è parlato diffusamente del metodo di ricerca di Aby Warburg e, attraverso la mediazione di Carlo Ginzburg e W.J.T. Mitchell, dei legami che questo particolare tipo di ricerca intrattiene con la divinazione, la semeiotica medica e le indagini dei detective.

La ricostruzione delle attribuzioni e dei significati delle opere di arte visiva rinascimentali (scopo primario del Warburg Institute) è connessa con un interesse più vasto nello sviluppo di una teoria generale del simbolismo. In particolare, ne Il rituale del serpente Warburg elabora una spiegazione antropologia della nascita dell’“istinto simbolico” nella specie umana. Essa teorizza un grado crescente di astrazione che parte dall’impulso mimetico rispetto ad un pericolo percepito (la paura del serpente viene ribaltata nella sua mimesi), a cui segue la raffigurazione di ciò che provoca paura e si conclude con la mutazione in puro schematismo matematico. Ciò che rendere particolarmente interessante l’approccio di Warburg risiede nell’attenzione rivolta alla permanenza di un atteggiamento irrazionale nei confronti delle immagini. In modo non dissimile da Freud, Warburg indaga quelle forme arcaiche di pensiero (l’analogia, la personificazione, il bisogno d’ordine, etc…) che non scompaiono con lo sviluppo della scienza moderna e la critica alle ideologie religiose, ma si installano in un sostrato inconscio, diventando patologie della percezione, del comportamento e della ragionamento. In particolare, l’atteggiamento del “cercatore di simboli”, che erra irrazionalmente da una traccia all’altra, da un’immagine all’altra, alla ricerca di un significato profondo – nello stesso modo in cui il detective ricerca le prove della presenza di un colpevole nei segni lasciti nella scena del delitto – è una delle caratteristiche principale del ragionamento paranoide. Come ha fatto notare Mitchell, il ragionamento paranoide e quello dell’iconologo, lungi da appartenere ad una particolare professione o ad una metodologia di ricerca (il paradigma indiziario descritto da Ginzburg in Miti, Emblemi, Spie), diventano oggi una delle modalità più diffuse di rapporto alle immagini, influenzato dello sviluppo di Internet e dalla disponibilità di enormi quantità di dati iconici.

Un altro aspetto importate della metodologia di Warburg ed allievi è l’istituzione di Mnemosyne o Atlante delle immagini: un vasto repertorio iconico e testuale legato alla diffusione dei temi dell’antichità classica nel rinascimento italiano e nordico. È qui che Warburg individua quelle “formule del pathos” che si spostano geograficamente, storicamente e culturalmente.
L’ipotesi generale di Warburg, elaborata a partire da alcune teorie evoluzionistiche ed antropologiche (la Biologia delle immagini), è che nella specie umana l’effetto di un’emozione troppo intensa per essere espressa si inscriva come impressione di tracce nella memoria individuale e collettiva. Queste possono venire riattivate mediante la produzione di rappresentazioni e simboli che si riattivano in particolari situazioni che ci mettono a confronto con le stesse situazioni psicologiche. Per questo le tavole di immagini che compongono l’atlante mostrano assieme raffigurazioni di epoche e geografie diverse, legate a mitologie e religioni eterogenee, che dovrebbero costituire una sorta di “mappa iconica delle emozioni”, forme visive che rappresentano i gesti, i simboli o gli schemi che si riattivano in presenza di una emozione troppo intensa per venire integrata psicologicamente.

Il passaggio delle immagini da un contesto culturale (geografico e storico) all’altro implica delle trasformazioni. La tesi principale dello storico dell’arte francese Didi-Huberman è che queste trasformazioni siano assimilabili alle alterazioni che le percezioni ed i ricordi diurni subiscono nel corso dell’elaborazione onirica. Didi-Huberman afferma che il capitolo sul lavoro onirico de L’interpretazione dei sogni sia leggibile come una sorta di “retorica della trasformazione delle immagini” che investe non solo il processo di produzione artistica (elemento già individuato da Freud), ma la stessa “logica” della mutazione storica delle immagini. Si pensi ad una personificazione come quella del diavolo: la sua iconografia è in parte riconducibile alla confluenza di tratti di divinità babilonesi, ed in parte da quella dei sileni o del dio greco Pan. Quando il diavolo viene risemantizzato negativamente in epoca medievale, avviene un’inversione: la stessa forma iconica-culturale assume un significato contrario a quello originario. Nel progetto dell’Atlante Mnemosyne Warburg aveva iniziato ad elaborare una possibile tassonomia di queste variazioni (polarizzazione, inversione, enfatizzazione, etc…), quello che fa Didi-Huberman è sovrapporre alla griglia di lettura dello storico dell’arte amburghese la tipologia delle alterazioni delle immagini nei sogni descritte da Freud (condensazione, spostamento, etc…).

È importante ricordare che queste alterazioni, prima di essere descritte in termini visivi ed onirici, sono figure retoriche, il vecchi tropi dell’elocutio dell’oratoria classica (metafora, metonimia, ellissi, iperbole, etc…). Questo ulteriore passaggio ci permette di comprendere perché nelle prime analisi semiotiche del discorso pubblicitario (si veda Barthes) è proprio la retorica classica ad essere utilizzata come griglia interpretativa dei meccanismi di produzione testuale ed iconica reclamistici.
Di alterazione delle immagini si è anche occupato il filosofo Gilles Deleuze in Bacon: Logica della sensazione. In questo testo viene esposta una teoria della produzione artistica intesa come lavoro di alterazione, strappo, defigurazione dei dati percettivi. La pittura (ma per estensione possiamo intendere ogni operazione di produzione iconica) è quindi descritta come il lavoro che forze esterne esercitano sulle percezioni, alterando morfologicamente la loro natura.

Nel passaggio fra secondo e terzo modulo si è inoltre discusso un aspetto molto importate per quanto riguarda l’innovazione dei visual studies rispetto alla storia dell’arte, ovvero la necessità di integrare storicamente ed antropologicamente la teoria dello sguardo. Pur restando nel campo dei visual studies, W.J.T. Mitchell e Régis Debray hanno contribuito ad un’estensione antropologica delle metodologie di analisi delle immagini. È importante ricordare che i visual studies, essendo un campo disciplinare eterogeneo, prendono spunto dalle categorizzazioni di varie discipline, ma possiedono un nucleo concettuale proprio, che a volte semplifica le tecniche “prese in prestito” dalle altre teorie. È questo il caso dell’antropologia, divenuta centrale nelle analisi della cultura visuale, ma spesso utilizzata in modo anacronistico e parziale. In What do pictures want? Mitchell riprende la codificazione ottocentesca di animismo, totemismo ed idolatria per ipotizzare una teoria della pluralità degli atteggiamenti pragmatici ed irrazionali nei confronti delle immagini. Nessun antropologo oggi si riferisce a queste categorie in modo acritico, e la classificazione proposta da Mitchell è più vicina al senso comune che alla teorizzazione accademica. Allo stesso modo anche la cronologia delle epoche dello sguardo di Debray, in Vita e morte dell’immagine è più uno strumento utile fare ordine che una teorizzazione scientifica.

Entrambe le proposte servono a caratterizzare in modo più specifico tutti quegli atteggiamenti pragmatici ed irrazionali di rapporto con le immagini che esulano dalla pura constatazione mimetica o dalla ricerca del significato. Così, per Debray l’approccio “antico” all’immagine è di tipo idolatrico, perché si attribuisce un potere di agency ad un oggetto inanimato, mentre nella società contemporanea questa disposizione sarebbe sostituita dalla relazione con i mass media. Per Mitchell, invece, ancora oggi le immagini manifesterebbero delle forze latenti che ci inducono a trattarle come “oggetti dotati di vita” (gli idoli), come generatrici di desiderio (i feticci), o come personificazioni collettive (i totem).

Come vedremo in seguito, l’antropologia delle immagini opera con metodi e concetti diversi da quelli di idolatria o totemismo, quali l’analisi etnografica (Severi), l’epidemiologia delle idee (Sperber) e la teoria dell’agentività diffusa (Gell), i quali sono profondamente diversi dalle categorie ottocentesche e primonovecentesche dell’antropologia diffusionista ed evoluzionista.

Iconoclash, Guerra delle immagini, Antropologia delle immagini, Ontologie, Raffigurazioni Chimeriche

Nel terzo modulo sono stati introdotti alcuni elementi di base dell’antropologia delle immagini francese (Descola, Gruzinski, Augé, Severi) e britannica (Gell). Si è inoltre discusso del concetto di Iconoclash (Latour) del rapporto fra visual studies ed antropologia (Belting). Prima di entrare più specificamente nell’antropologia delle immagini, si è ritenuto importante discutere in modo dettagliato l’attuale situazione politica di guerra delle immagini, attraverso la griglia interpretativa di Mitchell in Cloning Terror e di Gaia Giuliani in Zombie, Alieni e Mutanti.
A nostro avviso, una delle possibilità più interessanti dei visual studies è l’analisi delle narrazioni collettive, quelle che Mitchell chiama meta-pictures, ovvero particolari icone culturali, mitologie e storie che, scollegate dal loro contesto, diventano catalizzatori di attenzione ed identificazioni per vaste comunità culturali e linguistiche. Nel caso della guerra al terrore che impegna oramai da anni il governo statunitense, alcune “figure” o “fermi-immagine” si sono staccate dal flusso iconico per diventare raffigurazioni virali, simboli degli eventi, abbrivi mnemonici per fare luce su una situazione politica e sociale incerta. La distruzione delle torri gemelle, le foto dei prigionieri di Abu Ghraib, l’attacco alla redazione di Charlie Hebdo ed i suoi simboli costituiscono una rete di eventi cruenti e spettacoli e risposte (anch’esse altrettanto violente e spettacolari). Avendo descritto nei primi due moduli una serie di teorie, problemi e prospettive di ricerca legate all’interpretazione, alla produzione ed alla migrazione delle immagini, nel terzo modulo ci si è occupati degli aspetti conflittuali che la creazione, la diffusione e la ricezione delle immagini comporta.

Quello che emerge nell’analisi della guerra iconica fra Stati Uniti ed estremismo islamico è il delinearsi di una polarizzazione asimmetrica: da un lato abbiamo dei gruppi terroristici che agiscono in modo simbolico, colpendo scientemente i luoghi simbolici di accumulazione del capitale finanziario, o recentemente, direttamente luoghi di incontro nelle gradi capitali europee. Il caso Charlie Hebdo, in particolare, evidenzia l’asimmetria visiva della guerra delle immagini: l’ISIS colpisce la redazione di un giornale satirico per aver violato l’aniconismo islamico. Allo stesso tempo, da parte dello stato francese, c’è una reazione di securizzazione dello spazio pubblico e di compattamento della comunità identitaria (l’immagine dei capi di stato europei in marcia per la liberà di espressione). Dei luoghi di nascita dei terroristi, delle condizioni urbanistiche e sociali delle banlieues francesi dalla quali provengono non si vede molto.
Il rapporto fra visibile e invisibile nell’iconosfera (la sfera circolazione delle immagini nei vari media), è un rapporto politico. La guerra al terrore, ad esempio, è asimmetrica nella suo utilizzo di tecniche di visualizzazione/distruzione a distanza (i droni), cui si risponde con la diffusione del terrore per mezzo di attacchi spettacolari. Allo stesso modo, invisibili sono le torture dei detenuti di Guantánamo e Abu Ghraib – che diventano scandalo quando emergono nella sfera mediatica; mentre visibilissime sono le immagini di decapitazioni diffuse dall’ISIS in risposta alle azioni statunitensi. L’ISIS è stato definito come un gruppo terroristico che mescola idee medievali e strutture di propaganda avanzate. Dai video di reclutamento che imitano infografiche ed estetica videoludica alla finta distruzione delle statue del museo di Ninive, la guerra mediale del gruppo terroristico va di pari passo con il controllo politico di uno stato nazionale.

Le origini di un tale impiego politico delle immagini non sono moderne, ma risalgono ai primi secoli del cristianesimo, nelle riflessioni teologico-filosofiche intorno all’immagine. Studi come quelli di Susan Buck-Morss e Josè Mondzain hanno cercato di stabilire una genealogia del rapporto fra diffusione delle immagini e potere politico (in particolare il potere sovrano di fondare una nazione). L’uso politico delle immagini viene teorizzato all’interno dei dibatti sull’iconoclastia, nella quale viene deciso che il cristianesimo occidentale considererà il rapporto dei fedeli a dio come una mediazione attraverso le immagini. Il termine impiegato allora, economia, riecheggia nei dibatti attuali sulla natura “religiosa” del capitalismo e sull’intersezione di potere iconico (potere di farsi rappresentare, potere di rappresentare) e religioso. Il sacramento dell’incarnazione, è un farsi immagine di Dio, un farsi carne in Gesù. Di qui la rappresentazione del corpo dell’Ecclesia come insieme dei fedeli e del volto di Cristo come testa - immagine questa, che verrà sostituita da quella del Leviatano, e poi da quelle dei vari sovrani europei, fino ad arrivare al volto dei dittatori novecenteschi.

Attraverso questa genealogia viene ricostruito il legame che le immagini intrattengono con l’identificazione politica (l’icona del sovrano che fonda il popolo).
La triade composta da immagine-medium-corpo, introdotta da Hans Belting in Antropologia delle immagini, permette invece di descrivere il rapporto fra morte, produzione di rappresentazioni e dispositivi. Estendendo la ricostruzione storica dei due corpi del re proposta prima da Kantorowicz e poi da Ginzburg, Belting afferma che il rapporto dell’uomo alle immagini sia segnato dalla volontà di immortalità: il cadavere di un defunto viene sostituto da una rappresentazione (pietra, statua, dipinto, simulazione virtuale), che si inscrive in un medium. Per Belting è necessario distinguere fra le immagini (ovvero le rappresentazioni in sé), i media (ovvero i ricettacoli delle immagini) ed i corpi (ovvero il soggetto delle rappresentazioni, che possono a loro volta diventare medium, come nel caso dei corpi tatuati). Questa partizione permette di gettare nuova luce nella metodologia iconografica (il progetto di Belting è da considerarsi come una revisione dell’iconografia di Panofsky).

Per ciò che concerne l’antropologia delle immagini in sé, intesa come indagine dei rapporti sociali mediati delle immagini, abbiamo scelto di presentare il lavoro di Philippe Descola (La fabrique des images), quello di Alfred Gell (Art and agency) e quello di Gruzinski (La guerra delle immagini) e della sua ripresa da parte di Augé (La guerra dei sogni). La ragione che ci ha spinto a proporre questi lavori e non altri risiede nella comunanza di questi approcci con alcuni elementi di base dei visual studies, soprattutto nel caso di Descola, la cui proposta permette una critica ed una continuazione del metodo iconografico.

L’antropologo francese è impegnato da anni in una ridefinizione generale dei compiti dell’antropologia: si tratta di indagare le procedure di composizione dei mondi, ovvero modalità inferenziali e pragmatiche di concepire e modificare l’ambiente. Nella teoria di Descola alla classica coppia natura/cultura viene sostituita una caratterizzazione composta da quattro elementi: interiorità/fisicalità e continuità/discontinuità. Mediante la combinazione di questi elementi, si possono determinare quattro modalità di “composizione del mondo”, denominate ontologie: l’animismo, il naturalismo ed il totemismo e l’analogismo. Queste quattro modalità articolano in modo combinatorio gli elementi di base per giungere ad una caratterizzazione limitata delle condizioni di possibilità di costruzione di un mondo. Mediante questa teoria Descola è interessato a fornire una tassonomia delle procedure inferenziali: le categorie ontologiche non sono né visioni del mondo, né invarianti biologiche, ma attualizzazioni di alcuni elementi presenti nell’ambiente ed oscuramento di altri. Descola vuole stabilire inoltre una caratterizzazione geografica e storica della distribuzione delle ontologie. L’aspetto più interessante della procedura di Descola è quello di produrre uno spostamento dello sguardo eurocentrico e scientifico europeo, inficiando quella che è stata la distinzione di base dell’antropologia: la distinzione fra un “noi” scientifico ed europeo ed un “loro” irrazionale e non-europeo.

L’ontologia naturalista, sviluppatasi in Europa a fra ‘600 e ’700, è caratterizzata dalla partizione fra natura e cultura, ovvero fra una fisicalità descrivibile nei termini delle leggi fisiche e da una interiorità individuale, l’anima. A questa determinazione corrisponde una modalità di rappresentazione, che Descola identifica con il caso paradigmatico della pittura fiamminga (quella studiata da Svetlana Alpers ne L’arte del descrivere), che in effetti si compone principalmente di ritratti di individui e paesaggi/nature morte. In questo senso la pittura fiamminga manifesta visivamente una struttura ontologica soggiacente, quella che vede la natura come oggetto di studio ed imitazione e la “cultura” come regno dell’interiorità individuale e della psicologica. Questa pittura, inoltre, attraverso la produzione di ritratti di cose, come le nature morte, assume anche una connotazione economico-politica: è la visualizzazione degli effetti del nascente capitalismo (come aveva indicato John Berger).

Ritratti di borghesi, dei loro possedimenti terrieri (paesaggi), delle loro cose (Cabinets d’amateur, nature morte) è una trasposizione immaginaria di rapporti reali.

Le altre ontologie - animismo, totemismo, analogismo - benché siano definite nei termini classici dell’antropologia del primo novecento, assumono nella trattazione di Descola un significato particolare: l’animismo è un modo di rappresentazione a prospettive multiple, proprio dei popoli dell’Amazzonia e del Nord-America, società principalmente legate alla caccia ed alla raccolta che concepiscono il rapporto con animali e piante in senso predatorio. L’uomo che guarda ad un animale da preda sa che al di sotto della sua apparenza fenomenica (la sua pelle) soggiace una interiorità umana, e viceversa. Per questo gli artefatti prodotti dalla popolazioni che presentano questa particolare ontologia sono dispositivi di transizione da una prospettiva all’altra e consentono l’incontro fra entità che normalmente non avrebbero contatti (es. maschere per trasformarsi in animali, tatuaggi astratti che ricalcano il pattern delle superfici delle pellicce animali).
Il totemismo, invece, non è considerato l’ontologia primaria degli indiani del Nord America, ma è ristretto alle popolazioni australiane. Nel totemismo animali piante ed umani provengono da un comune antenato che mescola i tratti di tutte le specie e ne costituisce la forma originaria. Questo antenato ha prodotto, nel tempo mitologico, l’esistenza e la struttura dell’ambiente dove vivono assieme umani e non-umani. Ogni essere che vive in quest’ambiente ha inscritta nel corpo la forma “araldica” della sua appartenenza ad un totem. L’arte di queste popolazioni è caratterizzata da disegni che raffigurano gli esseri mitologici in forma schematica e cartografica: sono ritratti e mappe allo stesso tempo. Mostrano la struttura dei percorsi che le divinità originarie hanno compiuto producendo i territori, ne indicano le proprietà ed allo stesso tempo sono strumenti di ordinamento spaziale.

L’analogismo, infine, è la categoria ontologica più interessante è più diffusa. Non solo costituisce il modello primario di costruzione del mondo che è rimasto invalso in Europa dal IV secolo a.C. sino alla rivoluzione scientifica, ma rappresenta anche la caratterizzazione del sistema cosmologico della Cina Antica, di alcune popolazioni dell’Africa centrale e degli imperi mesoamericani prima della conquista. L’analogismo concepisce il cosmo come una vasta rete di corrispondenze: pietre, piante, animali, parti del corpo umano e costellazioni sono legate fra loro da legami di simpatia ed antipatia. L’interiorità delle cose, indifferentemente dalla specie, è costituita dalla combinatoria di alcuni elementi di base: ogni essere possiede una sua particolare complessione che risuona con tutti gli altri. L’analogismo è caratterizzato dalla presenza di artefatti visivi che funzionano come dispositivi di orientamento nel cosmo: schemi delle connessioni astrologiche fra parti del corpo e costellazioni, tavolette per le divinazioni, mappe dell’oltretomba, etc… Questi schemi servono a fornire una mappa delle relazioni fra gli esseri, usata da uno o più esperti per controbilanciare le tendenze negative e le malattie del corpo umano. In questa ontologia il corpo umano è la rete che catalizza tutti i legami, ma è un corpo chimerico, composto dalla sommatoria di parti connessione con tutte gli altri settori del cosmo.

Mentre Descola è principalmente interessato a stabilire una mappa delle differenze nelle modalità di rappresentazione, Alfred Gell cerca di individuare una procedura cognitiva universale, che sia in grado di descrivere sia i procedimenti di produzioni delle opere artistiche e degli artefatti nelle società moderne sia tutte quelle immagini studiate in campo etnografico (feticci, tatuaggi, statue, disegni astratti, operazioni magiche). L’ipotesi generale di Gell è che, dal punto di vista antropologico, ogni oggetto artistico ha il potere di essere considerato come un agente sociale, non proprio una persona, ma come se fosse dotato di vita, di interiorità e della possibilità di modificare rapporti sociali. Il corollario di questa ipotesi è che in tutti quei casi in cui di fronte alle immagini si hanno atteggiamenti irrazionali, questo deriva da una mancanza di conoscenza rispetto ai meccanismi di produzione. La magia e l’attribuzione di vita alle immagini ed agli oggetti deriverebbe da una lacuna nella possibilità di ricostruire retrospettivamente i passaggi che hanno portato alla realizzazione finale dell’opera. La differenza fra un atteggiamento scientifico e pre-scientifico in rapporto alle immagini è situata in questo: mentre in un’operazione di produzione di immagini “vive” o “agenti” c’è un segreto che è volutamente mantenuto e che rende impossibile per un profano comprendere i gesti e le opere di uno sciamano o di un ufficiante, gli esperimenti scientifici sono basati su una completa disponibilità di informazioni.

Come ha fatto notare Latour ne Il culto moderno degli dei fatticci, questa ipotesi non è completamente vera: in realtà il nostro atteggiamento nei confronti dell’operare tecnico-scientifico è in un qualche modo simile a quello che le popolazioni nonmoderne rivolgo a feticci o immagini magiche. Anche noi crediamo che le leggi vengano “scoperte” dalla natura, quando invece la loro produzione è frutto di un lungo lavoro di mediazione politica e culturale. L’attribuzione di vita, la credenza nell’animazione degli oggetti e la credenza nella purezza dell’operare scientifico sono tutti atteggiamenti volti all’eliminazione delle procedure tecniche, delle singole operazioni che hanno portato alla realizzazione dell’opera (o della legge). Lo stesso Latour, occupandosi successivamente di visual studies ha espresso questa tesi in rapporto ad una classificazione delle tipologie di iconoclastia, in preparazione della mostra Iconoclash. Anche in questo caso, infatti, si tratta di stabilire la molteplicità dei rapporti che gli uomini istituiscono con le immagini: quando un’immagine risulta acheropita (ovvero non prodotta da mano umana), riemergono quegli atteggiamenti animistici e feticistici che i moderni attribuiscono ciecamente ai selvaggi, dimenticandosi che questo è il loro stesso atteggiamento nei confronti dei progressi scientifici.
Infine, l’esito forse più interessante della teoria di Gell è la trattazione delle immagini legate alle pratiche magiche (raffigurazioni di attacco, protezione, cura, etc…): il fatto che spesso si ritrovino gli stessi patterns (labirinti, tatuaggi, ornamenti, glifi) è dovuto alla natura formale di queste strutture: troppo complesse per essere gestite dalla percezione, funzionano come degli oggetti che, per complessità, risultano non prodotti da mano umana, e quindi sovrannaturali o vivi.

L’elemento più interessante dell’approccio antropologico alle immagini è la possibilità di studiare delle situazioni colonizzazione dell’immaginario, métissage, ibridazione. Le cosiddette “religioni sincretiche” dell’America centrale e meridionale sono ricche di immagini che mescolano tratti delle culture precolombiane con l’iconografia cristiana dei conquistadoes. Allo stesso modo in tutte quelle culture che sono state sussunte dall’imperialismo e dal colonialismo europeo, ci troviamo di fronte ad una situazione di asimmetria economica ed iconica. Un crocefisso usato come “feticcio” in Congo o le raffigurazioni della Madonna di Guadalupe non sono ibridazioni, ma raffigurazioni chimeriche, immagini che annullano alcuni elementi locali ed innestano nuove parti, mutuale dalla cultura coloniale. L’ambiguità di queste figure attesta certamente la dissoluzione culturale alla quale venivano sottoposte le popolazioni conquistate, ma il fatto che queste immagini presentino tratti originali, è simbolo della loro resistenza all’assimilazione. Carlo Severi ha chiamato queste immagini, chimere, riferendosi a quegli animali della mitologia greca composti da parti del corpo di specie eterogenee, elaborando così una teoria del conflitto e del dialogo fra diversi modi di costruire il mondo.

Marc Augé si è invece interessato al fenomeno di scomparsa dell’immaginario originario (quello che l’etnografo registra), e della sua sostituzione con un immaginario spettacolare e fittizio (quello della “civiltà dell’immagine”, composto dalle pubblicità, l’industria televisiva e cinematografica). In questo senso Augé concepisce il post-moderno come una dissoluzione delle narrazioni e delle mitologie tradizionali e la loro soppressione con simulacri di un tempo e di una cultura ormai in frantumi.

Cultural appropriation e Controvisualità (foto, film, design), Memetica, Neuroestetica, Cultural Analytics, Platform Capitalism

Nell’ultima parte del corso sono state prese in considerazione alcune tendenze estetiche e metodologiche legate alla rivoluzione digitale, all’approccio biologico ai problemi estetici ed alle questioni di politica delle immagini. Centrale, in questo senso, è la definizione di poor image elaborata da Hito Steyerl. L’immagine povera è un oggetto paradigmatico che descrive in modo sintetico ed esaustivo un insieme di fenomeni legati alla produzione ed alla circolazione delle immagini nei new media. L’immagine povera ha una bassa risoluzione, può essere alterata, è virale, circola più velocemente delle immagini ad alta risoluzione (cinema, videoarte), è uno strumento politico che diffonde narrazioni parziali e non-egemoniche. In un certo senso l’immagine povera è l’emblema della controvisualità, termine introdotto da Nicolas Mirzoeff che descrive delle pratiche di produzione iconica subalterna, non-universalistica, situata e critica. La controvisualità, diffondendo immagini povere, svolge un lavoro di messa in discussione delle narrazioni e dell’immaginario egemone (caratterizzato da asimmetrie nella visualizzazione di razza, genere e classe).
Volendo costruire una genealogia delle pratiche di controvisualità, potremmo riferirci allo schema encoding/decoding di Stuart Hall – un’alterazione del modello informatico di descrizione della comunicazione (emittente –messaggio –destinatario). Nell’interpretazione di Hall, il destinatario non è semplicemente un ricettacolo di un messaggio, ma contribuisce alla sua circolazione, o alla sua contestazione. Nei mass media a struttura reticolare come Internet, il tasso di modifica, contestazione ed autoproduzione dei messaggi è molto più alto di quello che si verifica in altri medium comunicativi, come il partito politico, il discorso religioso o l’industria cinematografica. Attraverso Internet emerge e si consolida la figura del prosumer, allo stesso tempo spettatore, consumatore e produttore. Nell’analisi della circolazione delle immagini nelle nuove piattaforme digitali riemergono in forma estesa pratiche descritte dai cultural studies, dalla teoria critica e dall’antropologia negli anni ’60 e ’70.

L’appropriazione culturale (l’uso che una cultura egemone fa degli elementi di una cultura subalterna) ed il bracconaggio (la possibilità per un soggetto subalterno di sperimentare la fruizione critica di un prodotto culturale) diventano diffuse e costanti nell’utilizzo quotidiano di social network e piattaforme digitali. Volendo utilizzare una definizione sociologica elaborata da Bourdieu si potrebbe parlare di campo iconico come di quella sfera mediatica e politica dove visioni del mondo e rappresentazioni plurali si scontrano. Allo stesso modo si potrebbe definire capitale iconico la quantità di dati visivi connessi ad un soggetto (sia questo individuale od istituzionale) ed il numero delle connessioni intercettate dal suo nodo immerso in un sistema reticolare. I soggetti che dispongono di un maggiore capitale iconico, diventando egemoni, sussumono elementi da soggetti subalterni, secondo la pratica dell’appropriazione culturale. Di converso, un soggetto subalterno, che occupa una posizione marginale nel campo iconico, può attuare una strategia di bracconaggio o guerriglia nei confronti degli attori principali.

Le pratiche di controvisualità possono essere analizzate attraverso l’introduzione di una categoria presa in prestito dalla narratologia, quella di palinsesto. Questo sostantivo indicava nella filologia medievale un manoscritto con più livelli di scrittura: il testo originale (il più antico) non veniva cancellato e su di esso venivano a sovrapporsi varie scritture di epoche successive. In narratologia il termine palinsesto segnala una delle forme dell’intertestualità: il constante riferimento di un testo ad altri testi. Abbiamo individuato nel palinsesto la struttura d molte opere di controvisualità che, a partire dal caso paradigmatico de La società dello spettacolo di Guy Debord, sono composte secondo uno schema ricorrente: a. un montaggio di immagini provenienti da fonti eterogenee (cinema, TV, autoproduzioni, giornali, opere d’arte), b. un livello successivo costituto dalla voce o dal testo dell’autore che spiega come leggere queste immagini, e, leggendone, ne contesta l’ideologia soggiacente. Questo modello è stato ripreso da Godard nelle sue Histoire(s) du Cinèma, da Harun Farocki per i videogiochi, dalla stessa Steyerl per l’intera produzione della cultura visuale contemporanea e in moltissimi casi di fotografie d’autore.

Si sono citati, a titolo di esempio, i lavori fotografici di Thomas Hirshhorn su immagini di moda e guerra, quelli di Thomas Ruff su pornografia/guerra/news, quelli di Sugimoto, che evidenziano l’aspetto mediale delle immagini, quelli di Thomas Struth che indagano i rapporti fra istituzioni museali, spettatorialità e rapporto fra luogo ed immagine e quelli di Andreas Gursky di critica alla società dei consumi.

Il collage ed il montaggio agiscono a livello politico scorporando la visione naturale dello spettatore e ricollegandola alle sue condizioni di produzione. Oppure possono evidenziare gli aspetti di crasi che si sviluppano nei media (accostare narrazioni di guerra ad immagini di merci). L’aggiunta di un commento testuale o vocale, che integra nella produzione dell’immagine un aspetto ermeneutico e critico, consente di mettere a fuoco ancora più chiaramente alcune stereotipie che lo sguardo distratto registra come “naturali”. Collage e commento operano su materiali spuri, non producono una nuova immagine, ma riflettono sulla produzione delle immagini.

Per ciò che riguarda le possibilità di estendere l’approccio iconografico ad una metodologia scientifica, due sono le strade principali: una è quella della memetica e l’altra riguarda le neuroscienze. Per quanto riguarda la prima strategia, si tratta di un modello di analisi biologica della diffusione degli elementi culturali. Proposta negli anni 80’ da Richard Dawkins come analogia fra la trasmissione del codice genetico e la diffusione di elementi primari della cultura (storie, immagini, stili, etc…). Bisogna inoltre ricordare che la prima elaborazione di un modello biologico di diffusione degli elementi culturali è stata ipotizzata dal neurologo tedesco Richard Semon, che è un autore centrale per lo sviluppo della teoria delle Pathosformel di Warburg. Esiste però una versione più raffinata della memetica, quella sviluppata nell’antropologia cognitiva di Dan Sperber sotto il nome di epidemiologia delle rappresentazioni.

Diversamente dal modello di Dawkins, che pensa il meme come un’unità cultura che viene trasmessa senza essere alterata, le rappresentazioni di Sperber sono attive e reattive nei confronti dell’ambiente comunicativo nel quale sono inserite. Potrebbe sembrare una piccola variazione, ma l’idea che un meme perduri senza subire modifiche corrisponde ad una concezione identitaria della cultura, che replica sé stessa senza subire influenze esterne. Per Sperber (e poi per Severi), l’aspetto più interessante dell’applicazione del modello biologico allo studio della cultura sta proprio nel tentativo di comprendere fenomeni di conflitto/ibridazione/discussione delle identità culturali.
La memetica, al di là del suo contenuto accademico/scientifico, si è diffusa nei servizi segreti e negli apparati statali di difesa come un modello epistemologico per condurre una guerra delle idee: da strumento di comprensione è diventata pratica di propaganda e condizionamento ideologico.
L’apporto delle neuroscienze, invece, cerca di comprendere i meccanismi universali della produzione e ricezione delle immagini nella specie homo sapiens. Per ragioni di semplicità e sintesi, ci siamo concentrati nella teoria di un singolo autore (Ramachandran). La prospettiva di R. mescola elementi già noti alla psicologia della percezione novecentesca con l’introduzione di una caratteristica ricavata dalle osservazioni etologiche di Nikko Tinbergen. Si tratta del concetto di stimolo supernormale, ovvero del fatto che animali ed umani sembrano rispondere agli stimoli ambientali (in particolare quelli legati alla riproduzione, al nutrimento, all’accudimento ed al pericolo) in modo non naturale. Con questo si intende che, a fronte della necessità di orientarsi velocemente in un ambiente (di comprendere cioè gli elementi di pericolo, difesa, ed i partner sessuali) gli apparati percettivi siano costruiti in modo da percepire più facilmente ciò che nell’ambiente è meno frequente. In particolare gli stimoli supernormali sono particolari pattern figurativi, forme, colori che fanno innescare una reazione istintuale eccessiva e quasi ossessiva. Tinbergen, ad esempio, aveva scoperto che alcuni gabbiani reagivano in maniera spropositata ad un becco artificiale, privo di corpo, che esaltava alcune features. Ma, cosa ancora più strana, era riuscito a determinare una forma astratta, totalmente dissimile da un volatile o dal suo becco, che faceva letteralmente “impazzire” i gabbiani. La teoria di Ramachandran è che l’arte operi in questo senso: producendo artefatti che diventano stimoli supernormali, alterando alcune caratteristiche dei corpi, degli oggetti e delle forme, e realizzando infine delle immagini innaturali ma fortemente attrattive per il sistema percettivo. Esempi di questo effetto sono le statue greche, che possiedono dei corpi innaturali perché troppo perfetti e ricavati dall’uso di regole di armonia più che di mimesi, o anche le strane strutture fisiche dei personaggi dei quadri manieristi (colli troppo lunghi, muscoli troppo sviluppati).
L’idea che la produzione di immagini sia in realtà un vasto processo di alterazione della percezione è un tratto comune che mette assieme neuroscienze, la teoria estetica di Deleuze e quella del lavoro onirico freudiano. Ciò che accomuna queste tre prospettive è l’interesse per l’alterazione morfologica delle immagini: non esistono raffigurazioni mimetiche, calchi, tutte le immagini rispondono a procedure di alterazione, scomposizione, condensazione, separazione, ingrandimento, miniaturizzazione, etc… (considerate nella produzione individuale o collettiva e nelle loro variazioni storiche e geografiche). Le immagini, così come i racconti mitologici non hanno identità: la loro genealogia si perde nelle ramificazioni.

Si scompone una figura, si preleva una sua parte, la si ingrandisce, si modifica il suo significato, se ne alterano i tratti rendendola irriconoscibile, la si connette con un’altra immagine già scomposta. Queste sono le operazioni di produzione di nuove immagini, le stesse operazioni che agiscono, a livello diacronico, nella migrazione e contaminazione di simboli e rappresentazioni.
Nell’ultima parte dell’ultimo modulo si sono volute affrontare le questioni legate agli più recenti oggetti d’interesse dei visual studies. Si tratta delle possibilità aperte dalla prospettiva delle digital humanities, ed in particolare l’utilizzo di big data al fine di ottenere un archivio più vasto di dati da studiare e la possibilità di automatizzare il lavoro ermeneutico del riconoscimento di temi, stili ed influenze nella produzione di arte figurativa. Abbiamo quindi introdotto una serie di progetti legati alla metodologia del Cultural analytics inaugurata dal teorico dei new media Lev Manovich. Progetti come Inequaligram o The exeptional and the everyday utilizzano gli archivi visivi di Instagram come fonte per un’indagine sociologica che mescola elementi dalle scienze umane novecentesche (la nozione di campo, o quella di capitale simboli) allo sviluppo di algoritmi di ricerca che forniscono come output dei dati salienti. Il compito dello studioso di visual studies diventa quindi quello di studiare delle fonti “già elaborate” sotto forma di indici, statistiche, patterns. Il risultato finale dovrebbe essere più accurato di una ricerca sociologica che si basa su una fonte di dati meno cospicua – tuttavia, nei progetti summenzionati condotti da Manovich, abbiamo potuto constatare come l’utilizzo di un’enorme quantità di dati non cambi completamente dei risultati già assodati da simili ricerche condotte in assenza di una strumentazione digitale. In realtà, l’apporto dei big data, nella sua forma più utile, dovrebbe portate alla formulazione di nuove domande, e non all’ottenimento di risposte più dettagliate a domande.
Nel suo ultimo lavoro (Instagram and the contemporary image) Manovich scegli di occuparsi di una piattaforma di diffusione di contenuti visivi, Instagram, e lo fa utilizzando sia strumenti che appartengono alle scienze umane “classiche” – la storia dell’estetica, la storia dei media, l’economia politica, etc... – sia avendo accesso ai dati ed ai risultati dei case studies di cui si è occupato negli ultimi anni, che sono stati elaborati a partire dall’utilizzo dei big data. Il risultato è uno studio dell’emergere di un’estetica, quella di Instagram (polaroid, riviste di moda, riviste di design, fotografia di strada del ‘900), una tipologia degli usi (casuale, professionale e commerciale), ed uno studio della piattaforma come strumento di espressione individuale e collettivo.
Questo esempio ci mostra come l’utilizzo dei big data come corpus iconico per una ricerca elaborata nel campo delle digital humainites possa aprire un nuovo campo di studi, e consentire ai ricercatori di discipline eterogenee di collaborare. Ma Instagram ed il tipo di immagini che veicola costituiscono solamente una minima parte delle tipologie di immagini che circolano nella rete. Qui di seguito elenchiamo un elenco provvisorio e personale dalla tipologia di immagini più diffuse su Internet:

Benché si tratti chiaramente di un elenco incompleto ed arbitrario, che vale solamente come ipotesi di ricerca per un lavoro futuro da svolgersi, notiamo come alcune di queste categorie non sono nient’altro che la trasposizione di tipologie di immagini che abbiamo già incontrato nel corso, in altre epoche ed in altri media. Le immagini di animali “carini”, dotati di alcune caratteristiche che li rendono visivamente più piacevoli da vedere perché evolutivamente li percepiamo come bisognosi di cure, o come infanti umani, sono il risultato dell’applicazione di alcune regole percettive spiegabili nei termini della neuroscienza di Ramachandran. Così come alcune immagini fanno scattare risposte eccessive ed ossessive negli animali, è possibile trasporre la stessa funzione ad una tipologia delle “immagini supernormali” che catturano maggiormente l’attenzione della specie homo sapiens: Sono queste appunto le immagini con un alto tasso di tratti di infantilità, la pornografia, le immagini pubblicitarie (studiate appunto per funzionare come “attrattori dello sguardo). Tuttavia esiste anche una vasta area di immagini “culturali”, meme, collages che non rispondono direttamente a questi criteri biologici. In questo caso stiamo parlando di tutte quelle immagini che hanno lo scopo di rafforzare un’opinione politica, legate sia a partiti, che a gruppi identitari. La condivisione e la produzione di questo tipo di immagini è legata al fenomeno delle bolle di filtraggio, termine tecnico che indica quel fenomeno tipico della cultura digitale, che prevede la formazione di nuclei di senso autoreferenziali, di comunità identitarie ed escludenti, vuoi per scelte politiche, vuoi per la struttura degli algoritmi dei social networks, che sono basati sul rafforzamento delle opinioni, più che sulla necessità del dialogo.

Nelle piattaforme di condivisione delle immagini esiste inoltre una divisione del lavoro: non tutti gli utenti possiedono lo stesso peso nella rete, ma coloro che accumulano un numero molto elevato di transiti, diventano nodi centrali, ovvero Influencers. Lo studio sociologico di Instagram condotto da Manovich evidenzia chiaramente questo elemento, nel momento in cui considera le diversità fra un profilo gestito da un utente casuale ed un profilo la cui funzione è quella di pubblicizzare un brand. Il fatto che tutti possano accedere ad una piattaforma non implica che tutti facciano la stessa cosa. Gli Influencers sono una nuova forma di mediatori digitali che operano all’interno della rete, catalizzando e diffondendo stili, prodotti, idee.

Infine, un ulteriore categoria di immagini molto diffuse su Internet, ancora una volta legata al fenomeno delle bolle di filtraggio, è quella dei contenuti legati alle teorie del complotto. Così come esistono bolle informatiche legate alle identità politiche, alle identificazioni con una certa ideologia di consumo, esistono anche dei gruppi di costruzione di identità legati alla diffusione delle informazioni in sé. Funzionando come degli emittenti di stampa alternativi, i gruppi legati alle teorie del complotto svolgono un lavoro di decostruzione di alcune “pretese falsità” dell’informazione pubblica (stampa, televisioni, università). Facendo questo contestano l’autorevolezza di una fonte informativa e diffondo informazioni di altro tipo, di cui però è spesso difficile identificare la fonte e la correttezza.

Il fenomeno della creazione di gruppi identitari su Internet è chiaramente composto da una componente testuale oltre che iconica, e tuttavia, come ha fatto notare W.J.T. Mitchell in Seeing Madness, la dinamica di ricerca paranoica di ricerca di informazioni nella rete ricorda proprio quel paradigma indiziario che accomuna iconologhi, detective, medici ed aruspici.

Un altro esempio di digital humanities, dicevamo, è la possibilità di automatizzare il lavoro di riconoscimento. Si tratta di un punto molto controverso, perché la sua applicazione comporterebbe la revisione della totalità del paradigma iconografico (compresa l’antropologia delle immagini). Stando ad alcuni studi recenti (2016) nel campo dello sviluppo di algoritmi di riconoscimento di oggetti e forme, è possibile perfezionare questi algoritmi per: 1. Scomporre in oggetti e forme la composizione di un quadro rappresentativo, 2. Categorizzare gli stili, 3. Associare alla presenza di oggetti e stili un tema, 4. Determinare le reciproche aree di influenza fra artisti. A nostro avviso, il livello di perfezionamento di questi algoritmi arriva oggi a coprire il livello pre-iconografico ed una parte del livello iconografico dello schema di Panofsky. Tutto ciò comporta una necessaria revisione di alcuni assunti pedagogici di base. 1. Che cosa si deve insegnare nelle scuole rispetto alla storia dell’arte ed ai visual studies, se le competenze che l’alunno riceve sono automatizzabili? 2. Come cambia la struttura sociale del gusto individuata da Bourdieu se le competenze di classe legate al riconoscimento ed all’apprezzamento di un’opera d’arte non sono più utili?
A questo punto è possibile ripercorrere a ritroso tutto il percorso compiuto finora, e pensare al campo del riconoscimento dei significati e dei rapporti delle immagini come ad una struttura a gerarchia di complessità crescente. Alla base è situato lo studio neuroestetico delle invarianti percettive e biologiche della percezione e della produzione di immagini, seguono i tre livelli di Panofsky, alla quale però è necessario assimilare anche l’antropologia delle immagini e la categorizzazione ontologica di Descola. Per quanto riguarda la diffusione, l’alterazione e la migrazione delle immagini, gli studi di Warburg e quelle dell’epidemiologia delle rappresentazioni vanno sullo stesso piano. Infine, al livello più elevato ci sono le meta-pictures di Mitchell, immagini-guida, ideologie, o narrazioni collettive che si scollano dal flusso iconico per diventare attrattori di senso globali. Il fatto che i primi livelli di questo schema siano automatizzabili, come abbiamo visto, pone dei problemi pedagogici e disciplinari: dobbiamo forse pensare ad una futura integrazione di memetica, neuroscienze e big data come paradigma esclusivo di studio del campo visivo? Che ne sarà delle competenze e delle metodologie dell’iconografia, dell’antropologia delle immagini e dei cultural studies? Verranno integrate o nonostante tutto continueranno ad operare in un campo diverso? Queste domande, di carattere epistemologico e pedagogico, hanno evidentemente una connotazione politica, che le lega alla questione della struttura del campo iconico ed informativo nel suo aspetto contemporaneo (2017).

L’ultimo aspetto di cui abbiamo parlato nel corso riguarda la questione economico-politica dello sviluppo del capitalismo delle piattaforme. Da molti anni il sogno del cyberspazio come territorio incontaminato di diffusione delle informazioni, anonimità e sperimentazione si è trasformato in un insieme di enclosures (le piattaforme) che mediano le nostre interazioni. Dal punto di vista della teoria della comunicazione, le piattaforme possiedono i canali, mentre gli utenti producono e ricevono i messaggi. Mckenzie Wark e Nick Srnicek hanno descritto la classe che possiede i canali di trasmissione delle informazioni come vettorialista, alla quale si contrapporrebbe – come il proletariato alla borghesia – la classe hacker. Declinata nel campo dei visual studies questa contrapposizione concerne l’accumulazione del capitale iconico, ovvero la possibilità di diffondere immagini di sé (come individuo e come istituzione) o di disporre dei diritti di possesso delle immagini (nel caso di un archivio digitale). La dinamica del capitalismo delle piattaforme è tale per cui i canali che dispongono di meno risorse (meno dati, meno interazioni) vengono inglobati in strutture più grandi. Allo stesso tempo esistono pratiche che si oppongono a questo modello, conoscenze che circolano al di fuori delle grandi piattaforme. Il futuro sarà (forse) caratterizzato dal rapporto conflittuale fra queste due istanze.

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Meme: banche dati e iconografia

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http://www.sparringmind.com/supernormal-stimuli/

Riviste di estetica contemporanea

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