Secondo appuntamento con le interviste a personaggi del mondo dell’innovazione sociale e tecnologica, sul tema dell’educazione, della scuola, e dell’open source. Questo processo è l’incipit della co-progettazione, una riflessione aperta e condivisa sullo stato delle cose e sull’orizzonte di futuro prossimo.
Oggi l’intervistato è Salvatore Iaconesi, hacker, artista, ingegnere e designer, di Roma (anche se è nato a Livorno ed ha vissuto negli USA), tra i fondatori di Nefula.
Ciao Salvatore, come è stata la tua esperienza a scuola? (come studente o come insegnante)
La mia esperienza con la scuola è sempre stata molto particolare. La mia famiglia si spostava spesso per il lavoro di mio padre e, quindi, mi trovavo a cambiare scuola ogni 3-4 anni, dall’asilo alle scuole superiori: cambiare amici, maestri, professori, bidelli. Può essere difficile, ma per me è anche stato molto interessante, perché mi son trovato a non poter fare affidamento su una realtà costante e continua, ed a cercare la stabilità e la gioia nelle passioni, negli hobby, nelle cose che mi piace fare.
Nella scuola “ordinaria” questo era un bene e un male, simultaneamente.
Da un lato, ero molto curioso: la continua necessità di cambiamento e spostamento faceva sì che i miei migliori amici fossero le uniche cose che potevo portare con me, cioé libri, fumetti, le enciclopedie a volumi che erano una presenza costante in tante famiglie degli anni ’70 e ’80, i giocattoli e, poi, i computer.
Dall’altro lato, non riuscivo a stabilire un gran rapporto con i miei compagni e docenti. Volevo fare, sostanzialmente, quello che mi interessava, non tanto quello che era “in programma”. Ero bravino a scuola, prendevo quasi tutti 7 e 8, ma per me concentrarmi su esercizi, lezioni, compiti a casa, imparare a memoria, avere a che fare con date e nozioni era una fatica immane, ed una tortura che mi separava dal momento in cui finivo i compiti e potevo, finalmente, perdermi nelle cose che mi andava di fare: che fossero le costruzioni Lego, i fumetti, i videogiochi, i primi esperimenti di programmazione. Ricordo ancora il mio primo computer, l’Aquarius della Mattel (https://en.wikipedia.org/wiki/Mattel_Aquarius), con i suoi tasti di gomma blu orribile e il suo linguaggio BASIC con cui producevo i miei primi programmini creando composizioni e piccole animazioni generative con i caratteri.
Le mie passioni erano i veri momenti in cui mi sembrava di imparare qualcosa, scoprendola.
Imparavo molto da solo. Mi ricordo la passione che dedicavo ai fumetti. Ne avevo migliaia, e anche da piccolo cercavo spiegazioni sul loro significato, negozietti in cui trovarne di rari, persone che ne sapessero più di me.
Erano tutte passioni molto forti: erano tutto quel che avevo.
La scuola non riusciva a stimolare passione, invece. Tranne che in alcuni casi, con alcune persone specifiche.
Ricordo il mio professore di matematica a Roma, alle superiori. Fatte le scuole medie negli Stati Uniti, a Piladelphia, quando sono tornato in Italia ho fatto Ragioneria, a Ostia, fondamentalmente perché le uniche persone che conoscevo e che ero riuscito a ritrovare al mio ritorno dagli USA andavano lì, nell’istituto che avevo vicino casa.
In quella scuola c’era il professor Pallotta. Ingegnere e un pioniere dell’informatica. Non era quello che gli amanti della scuola “classica” chiamerebbero un bravo professore. Sostanzialmente veniva lì e non faceva “il programma”.
Arrivava e si parlava di quello che volevamo, spaziando dalla storia, all’architettura, alle innovazioni tecnologiche.
Io lo adoravo.
Il programma non esisteva. Come non esistevano i compiti a casa, le interrogazioni, i compiti in classe. Invece, esistevano i nostri desideri.
Era come se noi lo potessimo “assumere” per cercare di aiutarci quanto più possibile a coltivare ciò che amavamo, che ci interessava, che volevamo esplorare.
Molti dei miei compagni non capivano molto, non coglievano l’opportunità. E andavano a farsi la classica sigaretta al bagno, o si facevano tranquillamente gli affari propri in classe, tra i primi flirt, i messaggi sul diario, gli scherzi.
Per quei pochi che capivano, invece, si trattava praticamente di una illuminazione. Avevi a disposizione una persona colta, capace e desiderosa non tanto di insegnarti un paio di nozioni che avresti dimenticato appena uscito dalla scuola, ma di aiutarti sinceramente a capire quel che volessi fare o avere dalla vita, quel che volevi essere, usando libri, quotidiani, computer, discussioni, gite: tutto quel che serviva. Alcuni di noi andavano addirittura al suo studio di Ingegneria (era un professionista affermato, e sospetto che facesse l’insegnante per passione, piuttosto che per necessità di uno stipendio), dove facevamo esperimenti con computer “seri”, le workstation che, all’epoca costosissime, non potevamo permetterci a casa e che di sicuro non erano ancora nella scuola.
Per me è stata una figura fondamentale, che ha cambiato la mia vita. E che sì, mi ha “anche” insegnato la matematica, non come “oggetto morto”, ma in quanto cosa “viva”, con cui risolvere problemi, creare animazioni grafiche, scoprire paradossi, capire il mondo e il suo funzionamento, dalle meraviglie della ricorsione matematica in natura, al calcolo delle rate dei mutui, alle funzioni da usare per accertarsi che i ponti non crollino.
Tramite lui ed altre pochissime persone ho imparato anche ad amare l’insegnamento, e ad avere un incredibile rispetto per coloro che, per me, sono i bravi maestri.
Cioé quelle persone a cui non interessa tanto mettere in scena il loro sapere o stabilire relazioni di potere, ma di mettersi sinceramente al servizio della curiosità e di quello che di buono c’è in ognuno di noi, per quanto sia difficile scovarlo, da pari a pari, in una performance collaborativa il cui scopo non è quello di imparare questo o quello, ma di vivere ed arricchirsi vicendevolmente.
Ancor oggi, quando insegno, faccio esattamente questo. Lavorare sull’immaginario, sulla curiosità, sulla bellezza e l’accessibilità dei saperi, sul rendersi piattaforma viva per far sì che emergano discussioni, dialoghi, emozioni, sensazioni. Proprio quelle cose che faranno sì che le persone che ho davanti (che non sono i miei “clienti”, come vorrebbero farci credere tante istituzioni e organizzazioni dell’istruzione universitaria) poi, a lezione finita, si sentano ispirati, desiderosi di approfondire, studiare, capire, fare. Questo è il motivo per cui dico sempre ai miei studenti che “la lezione non finisce mai”. Perché sarebbe stupido il contrario.
Il tempo speso in classe (o negli altri luoghi classicamente dedicati all’istruzione) non è che una piccolissima parte dell’apprendimento.
Che deve essere continuo, e frutto di una relazione e interazione continua tra persone, oggetti, culture, linguaggi, modalità, contesti diversi. Tanto diversi da essere potenzialmente dissonanti, così da capire anche i conflitti che sono parte integrante dei saperi, e di farne tesoro, di comprenderli, accettarli, e prenderli in seria considerazione nel nostro agire umano, professionale, creativo, artistico, immaginario.
Raccontaci la scuola dei tuoi sogni…
Ci sono quattro aspetti principali che caratterizzano la “scuola dei miei sogni”.
Il fatto che “non finisce mai”, il ruolo dell’immaginario, la non-disciplinarietà e la leggibilità, accessibilità e desiderio dei saperi.
La scuola che desidero non finisce mai.
Nello spazio, nel tempo e nelle relazioni. Non è un edificio. Non è uno spazio temporale limitato. Non si svolge in un insieme limitato di persone. È una scuola ubiqua. Un bosco, la corsia di un supermercato, una strada, il binario su cui aspettiamo il treno, il posto in cui lavoriamo, una cena tra amici e persino un edificio scolastico: tutti questi (e tutti gli altri) luoghi/contesti possono (e dovrebbero) essere una scuola. In tutti questi luoghi, tempi e contesti dovrebbe essere per noi possibile accedere ai saperi ed esprimerli, discuterli, generarli, trasformarli, e derivarne di nuovi, rendendoli a loro volta accessibili, leggibili e desiderabili.
Per questo sono utili le tecnologie, ma anche e soprattutto le possibilità di stabilire relazioni che attraversino le culture, i contesti e le discipline.
Poi viene l’immaginario.
L’obiettivo di una scuola, per me, non dovrebbe essere quello di “imparare delle cose”, ma di stimolare processi secondo cui le persone percepiscano le molteplici possibilità e opportunità del reale, in modo possibilistico, e che quindi desiderino imparare, conoscere, apprendere per conto proprio, secondo le proprie inclinazioni e, nel farlo, stabilendo rapporti significativi con altri.
Per questo sono necessari nuovi tipi di insegnanti: performer dell’immaginario, dei poeti e artisti dei saperi, capaci di aprire mondi, di renderli percepibili, di farsi piattaforma in cui le persone possano imparare a desiderare di apprendere. Per questo è necessaria una nuova estetica, una nuova bellezza: per stimolare la percezione della bellezza del possibile, del molteplice, del diverso, dello sconosciuto, dell’altro.
Viene di conseguenza la necessità di superare i limiti delle discipline. Per suscitare il desiderio dell’esplorazione del diverso e dello sconosciuto sono necessari il movimento, le narrative, la possibilità di affrontare gli argomenti da tanti punti di vista differenti. La chimica è storia, filosofia, economia, antropologia, racconto, alimentazione, divertimento, spiritualità, società, non solo l’apprendere tecniche e metodi. Questo vale per tutte le altre discipline.
Per questo serve una nuova concezione che unisca approcci strategici e tattici, un terzo spazio dell’apprendimento in cui i saperi si ibridino in continuazione, attraverso le relazioni tra le persone e la realizzazione di progetti “veri”, nel senso che siano presenti nel mondo, con le persone, le società, i desideri, le aspettative, i conflitti del mondo.
In cui per fare matematica occorra anche capire la filosofia e l’antropologia che vi è dietro, attorno, attraverso, di lato, per cui la matematica non sia solo fatta di dati, variabili e formule, ma anche e soprattutto di persone che si relazionano e interagiscono nel e con il mondo, con tutte le sue complessità, da tanti punti di vista, culture differenti, conflitti e diversità.
Poi, il discorso della leggibilità, dell’accessibilità e del desiderio dei saperi.
Questo è, a mio parere, una problematica enorme. Oggi, si ricomincia da capo continuamente. Non c’è memoria, non c’è leggibilità, non c’è desiderio. Si riinventa tutto continuamente, senza apprendere dal passato e dal presente, in maniera narcisistica. Si corre, si innova, si sta svegli, si produce, si crea, senza fermarsi. Si guarda poco a quello che fanno e che hanno fatto gli altri. Il più delle volte le scoperte, le azioni e le innovazioni muoiono alla nascita, senza che alcuno ne benefici direttamente o indirettamente. Questo per tanti motivi, tra cui l’enorme quantità delle creazioni e delle innovazioni, ma anche e soprattutto per il modo in cui stiamo imparando ad avere a che fare con lo scorrere del tempo, troppo lineare, incedente, presente. Non ci si ferma, si va di emergenza in emergenza, di progetto in progetto, di opportunità in opportunità, di scopo in scopo, di relazione in relazione. Le pause, il sonno, il tempo libero, il tempo “inutile” scompaiono. Ma il sonno è importante: serve per sognare e per riassestare le connessioni neurali. Si può sopravvivere abbastanza a lungo senza mangiare, ma non senza dormire: si impazzisce e si muore molto rapidamente.
Per questo è necessaria una diversa scansione del tempo, non lineare, soggettiva, personale, rilassata, e la creazione di una nuova estetica della riflessività, della conversazione, della convivialità, dell’importanza dell’inutile, della festa senza obiettivo, del relax, del sonno, del sogno. Assieme a tutti gli strumenti (tecnologici, metodologici o relazionali che siano) per far sì che i meravigliosi saperi che produciamo, consciamente o inconsciamente, siano leggibili, accessibili, e soprattutto desiderabili ad altri, diversi da noi.
Questo è, forse, il punto più importante tra quelli che ho elencato qui sopra, ed il limite maggiore dei movimenti dei makers, hackers, e della creatività in genere.
come immagini una “scuola open source”?
Una “scuola open source”?
Ora mi odierete, ma non fa nulla. Per me una “scuola open source” non esiste. Per quanto detto sopra, una “scuola open source” dovebbe coincidere con il mondo, in cui si stabiliscano delle nuove estetiche, delle nuove bellezze, dei nuovi desideri e delle nuove opportunità relazionali, e in cui vi siano delle nuove consapevolezze, assieme a dei nuovi strumenti e metodologie, per far sì che cambino la scansione del tempo (meno Kronos e più Kairos (https://it.wikipedia.org/wiki/Kairos)) e il desiderio di rendere percepibili, leggibili e usabili i saperi.
Un terzo spazio tra Apollo e Dionisio.
Una “scuola open source” dovrebbe essere ubiqua. È uno stato mentale, non un progetto.
È magia, telepatia, poesia, corpo.
Si parla tanto di haker, maker, creativi. Non ci si chiede invece abbastanza quale possa essere il ruolo della magia, della poesia, della telepatia nell’innovazione e nel cambiamento sociale.
Ci si deve rendere conto che gli hacker, i maker e i creativi sono già parte del complesso industriale e, quindi, sono al servizio (tra l’altro quasi sempre non retribuito) di altri interessi.
Un amico mi diceva che l’unica reale libertà che ci sta per rimanere è l’impazzire. Secondo me è una affermazione forte, degna di una seria riflessione.
Con l’amico/fratello Alex Giordano, ad esempio, l’abbiamo presa molto sul serio, e pensavamo di tirar su una cosa che si potrebbe chiamare “Basaglia Hub”: un hub che applichi le grandi innovazioni di basagliana memoria agli ambiti dell’innovazione odierna, per riportare gli innovatori nella società.
La “scuola open source”? È sicuramente uno spazio mentale. (Per questo, ad esempio, mi piace molto parlare di “telepatia” quando si tratta di questi temi.)
Cosa cambierebbe se esistesse una “scuola open source”?
Se esistesse una “scuola open source” si sognerebbe di più, magari insieme a tante altre persone.
Networked dreams.
Potendo ripensare il modo in cui si trasmette la conoscenza nella scuola, come lo ripenseresti?
Come dicevo sopra, la trasmissione della conoscenza è solo una parte della scuola. Esistono migliaia di strumenti e metodi per trasmettere saperi, formali e informali, tecnologici e non, consci e inconsci. Non è quello che manca.
Mancano il desiderio, la consapevolezza, lo spazio mentale e il tempo (e la sua percezione) per la trasmissione della conoscenza. Quindi lavorerei su questi concetti.
In questo, l’idea della scuola come “ingresso nel mondo del lavoro” diventa problematico. Nel senso che il “mondo del lavoro” sta cambiando irrimediabilmente. È già cambiato. Servirebbe molto più spazio per fare una discussione seria su questo tema. Per fortuna la discussione è ampia e ricca, e basta guardarsi intorno per vederne le manifestazioni. Dirò solo che l’idea del lavoro è sempre più fluida e indistinguibile da quella di “vita” e di “tempo libero”.
Per questo è necessario pensare seriamente alle proprie libertà, alla propria autonomia e alla possibilità di creare ecosistemi relazionali capaci di sostenersi in maniera mutualistica, su economie molteplici e differenti.
In questo senso, il consiglio migliore che posso dare è quello di relazionarsi con le persone invece che con le aziende, di imparare a dialogare e relazionarsi tra corpi (per digitali, fisici o ibridi che siano), invece che con organizzazioni, in maniera sincera, mutualistica e aperta. Al di là del narcisismo e della necessità di disporre di risorse economiche, e abbracciando in maniera calorosa il possibile, l’immaginabile, il bello, il sincero, il sostenibile, l’ecologico (in senso non solo ambientale).
Facendolo ci si potrebbe accorgere di essere circondati da persone, non da aziende ed organizzazioni, non da percentuali e statistiche. Da corpi. Con desideri, aspirazioni, sogni, culture. Questo è, secondo me, uno dei maggiori interventi percettivi che dovrebbe attuare una scuola.
Cosa significa per te “fare ricerca”?
Fare ricerca è simile a sognare.
È uno stato onirico in cui ci si pone delle domande, per poi cercare risposte nello strano mondo che ci circonda. Raccontare la propria ricerca è come raccontare un sogno.
Come tale, è importante che la ricerca sia libera, proprio come è importante che i sogni lo siano.
Per questo è di fondamentale importanza riconsiderare in maniera profonda la libertà di ricercare, anche al di là dei ragionamenti sull’utilità e sulla produttività che troppo spesso attuano, nel mondo della ricerca, risultati sterili, poco avventurosi, poco liberi, brutti, singolari (invece che plurali, ovvero capaci di esplorare mondi possibili, al di là delle strategie – singolari e monodirezionali – dei pochi soggetti capaci di finanziare la ricerca).
In che modo credi che le tecnologie possano aiutarci a costruire un mondo migliore?
Penso che la domanda sia posta male. Nel senso che la tecnologia non è una “cosa” a sé stante. È parte della natura, della cultura, della vita. Proprio come non esiste lo “scienziato” come osservatore imparziale, al di fuori del sistema. O come, in tempi di Big Data, non esistono dati oggettivi o loro rappresentazioni “vere”, ma solo scelte di interagire con il mondo in un certo modo (ad esempio selezionado specifici parametri e variabili) e interpretazioni.
Quindi non sarà mai la tecnologia, qualunque essa sia, a costruire un mondo migliore, ma gli esseri umani e l’ambiente a creare, insieme, quel che verrà, di istante in istante, di scelta in scelta, di conflitto in conflitto.