C’è una domanda, insostituibile, che chiunque dovrebbe porsi, prima di accettare condizioni lavorative inique, ed è: perché lo stai facendo, se non ti pagano?
Quanto segue è il tentativo di dare una risposta sociologica, politica e psicologica alla questione, utilizzando la classificazione delle forme del capitale di Pierre Bourdieu, il concetto disaccordo di Jaques Rancière, i visual studies e le ricerche di sociologia del lavoro di Federico Chicchi, Emanuele Leonardi e Stefano Lucarelli.
Bourdieu distingue tre forme del capitale: economico, culturale e sociale.
La prima fa riferimento alla quantità di denaro accumulata; la seconda, più sfumata, comprende l’insieme delle disposizioni ereditate dalla classe sociale e sancite dal sistema educativo funzionali all’interpretazione (gusto estetico) ed alla produzione di opere intellettuali, letterarie, visive o musicali (competenze artistico-intellettuali); la terza, infine, costituisce l’insieme dei rapporti personali che un individuo intrattiene con la comunità nella quale è inserito. Il capitale culturale, a sua volta, comprende tre sottocategorie: l’incarnazione, l’oggettificazione e l’istituzionalizzazione. Bourdieu sviluppa il concetto di capitale culturale per rendere conto delle traiettorie disuguali dei percorsi scolastici d’individui appartenenti a classi sociali diverse. Nei sui primi lavori Bourdieu individua la presenza di un dispositivo di conversione del capitale economico in capitale culturale, che smaschera l’apparente neutralità del sistema educativo. Non solo: il capitale culturale, così come quello economico e sociale hanno una struttura fortemente ereditaria che interferisce con l’immagine uniformante del settore educativo. Il sociologo francese dimostra che i risultati scolastici dipendono in larga parte dalle condizioni economico/culturali famigliari. A prima vista questo risultato potrebbe sembrare lapalissiano, ma ciò che conta è come i capitali economico, sociale e culturale sono intrecciati. L’esito positivo di una carriera scolastica non dipende principalmente dalla volontà del singolo alunno, ma tesse delle reti attorno al posizionamento sociale dei genitori, alla distanza dalla scuola e alla quantità di opere letterarie ed artistiche possedute dalla famiglia. Gli alunni di classi sociali più elevate si muovo liberamente all’interno dell’ambiente educativo, perché posseggono in anticipo una certa dimestichezza con la pluralità dei codici interpretativi, un rapporto di non sudditanza all’autorità, una quantità ed una qualità di tempo libero superiori.
Tutti questi indicatori si manifestano, a livello quantitativo, nei risultati migliori dei figli delle famiglie alto-borghesi, e a livello qualitativo, nel modo in cui questi risultati vengono comunicati.
L’alunno di una famiglia che vive in uno stato d’indigenza non solo ha materialmente meno tempo da dedicare agli studi (perché deve lavorare o aiutare la famiglia), ma introietta un’etica del sacrificio, che altro non è se non la proiezione invertita della sua condizione economico-sociale.
Il senso d’inadeguatezza che viene introiettato nel percorso educativo produce la creazione di un rapporto di fascinazione / sudditanza / rivolta nei confronti dell’autorità.
A questo punto è necessario introdurre il concetto di capitale simbolico, che si accosta al capitale culturale senza essere completamente sovrapponibile. Comunemente si intende per capitale simbolico il possesso di un qualche potere carismatico o un attributo personale di fascino. Il concetto è in realtà molto più sottile, e per comprendere la sua natura dobbiamo rivolgerci agli studi di etnografia.
Il capitale simbolico è, in origine, la proprietà occulta che un oggetto o una persona possiedono “naturalmente”. Bourdieu dimostra che questo capitale non è una proprietà, ma un elemento connesso alla struttura ineguale dei rapporti sociali.
In sostanza, il capitale simbolico esiste quando un individuo o un gruppo obbediscono senza necessità di comando coercitivo agli ordini di un’altra persona o di un altro gruppo.
In relazione a coloro ai quali/alle quali viene attribuito un forte capitale simbolico si reagisce con fascinazione, riverenza e terrore. In sostanza il capitale simbolico è il segno di un debito sociale nei confronti di qualcuno (autorità) o qualcosa (feticismo).
Ora possiamo passare a discutere di alcuni elementi problematici dell’attuale crisi economica ed occupazionale. Il concetto di capitale simbolico diventa centrale per rispondere alla domanda che ci siamo posti all’inizio, ovvero: perché accettare delle condizioni lavorative ingiuste? Abbiamo visto come il capitale simbolico si manifesti nella forma di un rapporto diseguale (o asimettrico), nella quale una delle due parti è sottoposta ad un rapporto di sudditanza nei confronti dell’altra.
Non solo il capitale simbolico produce sottomissione e dominio, esso produce anche una relazione di dipendenza non calcolabile.
Questo si manifesta, ad esempio, nella forma del dono. Nei confronti di un’autorità simbolica, non c’è un rapporto quantificabile, ma una dipendenza che porta a donare beni economici o tempo di lavoro in cambio di una partecipazione all’autorità del capitale simbolico.
Bourdieu porta come esempio il rapporto conflittale della Chiesa Cattolica con la sfera economica. Come si può quantificare economicamente l’obolo che viene richiesto ogni domenica in Chiesa? E ancora: quale tipologia di lavoro svolgono i preti ed in che modo vengono retribuiti? Queste domande, apparentemente distanti dalla nostra questione principale, sono in realtà strettamente connesse. Il termine economia, infatti, indicava nei primi secoli dell’era Cristiana non tanto la sfera del governo degli affari familiari (il significato che aveva all’epoca di Aristotele), ma una complessa dinamica di rappresentazione e partecipazione legata all’uso delle immagini.
La decisione sull’uso delle immagini da parte della Chiesa Cattolica differisce dall’aniconismo ebraico ed islamico da un lato e dall’iconofilia bizantina dall’altro. La conversione dell’Impero Romano al Cristianesimo ha implicato una svolta nella teorizzazione dell’immagine che ha avuto conseguenze secolari di cui ancora subiamo gli effetti. In sostanza la funzione delle immagini codificate della divinità (o del Paradiso, degli Angeli, della vita di Cristo, etc…) è quella di mediare fra la molteplicità dei singoli credenti e l’unicità della divinità. Susan Buck-Morss assimila questo processo alla dinamica che avviene nell’identificazione di un popolo nell’effige del sovrano, o allo stemma di un partito.
Le immagini non sono dei segni accessori che rimandano a divinità invisibili ed impensabili, ma lo strumento che fonda l’autorità.
Il proliferare delle immagini nelle cattedrali del XII secolo o nelle chiese barocche corrisponde ad una precisa ideologia di colonizzazione dell’immaginario. In altre parole, queste immagini fondano il potere simbolico oggettificato.
Questa digressione iconologica serve a spiegare qualcosa di molto concreto, ovvero una delle ragioni per la quale il capitale simbolico è oggi diventato la forma di retribuzione più comune per i lavori cognitivi. Sia Andrew Ross che Federico Chicchi, Emanuele Leonardi e Stefano Lucarelli individuano nella retribuzione simbolica una delle forme principali di distruzione del rapporto salariale messe in atto dalle politiche neoliberali post-2008. Molti lavori creativi o cognitivi legati all’industria digitale, alla comunicazione e all’educazione hanno visto negli ultimi anni un drastico taglio della retribuzione economica. I contratti diventano sempre più brevi e precari, i pagamenti sono quasi inesistenti, ma, nel frattempo, nessun movimento dal basso riesce ad intaccare la logica di sudditanza alla quale sono sottoposti i lavoratori e le lavoratrici cognitiv*.
Possiamo ipotizzare che ciò che è accaduto in seguito alla crisi economica sia stata una conversione del capitale economico in capitale simbolico e sociale.
In questo senso il pagamento di un lavoro cognitivo non avviene se non in minima parte secondo l’equivalenza tempo = denaro, ma attraverso una più subdola omologia fra valore economico e valore simbolico. Il pagamento avviene quindi come promessa di futuro pagamento, e la retribuzione è continuamente rimandata al futuro. Nel presente il lavoro viene remunerato nelle forme di una compensazione emblematica, quali possono essere la partecipazione ad un evento, l’inclusione in un gruppo ed il marchio istituzionale di un titolo da aggiungere nel curriculum. L’inclusione in un gruppo (un laboratorio di ricerca accademico, o la participazione ad Expo), produce inoltre un’accumulazione del capitale sociale, ampliando la rete delle conoscenze.
Per quanto possa sembrare strano, il pagamento del lavoro in termini di accrezione della visibilità è leggibile attraverso le lenti della teoria dell’immagine emersa nei primi secoli dell’era cristiana.
In un’economia di scarsità del capitale iconico, senza la possibilità di riprodurre tecnicamente le immagini, la grandiosità e lo splendore dei mosaici normanni avevano il potere di genere un senso di stupore e appartenenza.
Nella nostra epoca, l’iper-saturazione dello spazio iconico trasforma la visibilità in una vero e proprio valore di scambio (così come lo sono per altre ragioni i dati). Il problema, come aveva già intuito Bourdieu, è che la conversione dei capitali dipende principalmente dalla classe sociale.
Per questo, vediamo chiaramente come sia possibile far corrispondere ad un capitale economico un capitale iconico (o di visibilità), ma che il secondo non necessariamente si converta nel primo.
Il problema di quella che Raffale Alberto Ventura chiama “classe disagiata”, letto attraverso le lenti di Bourdieu, è in fondo solo questo:
convertire il capitale simbolico in economico.
Già negli anni ’70 Bourdieu affermava che il capitale culturale (i titoli accademici accumulati, la possibilità di prendere parola in pubblico, la possibilità di interpretare messaggi estetici complessi) richiedesse un tempo di sviluppo direttamente correlato alla classe sociale di appartenenza. Questo voleva dire che l’alunno brillante ma economicamente povero e culturalmente naif avrebbe impiegato molto più tempo e molta più fatica per raggiungere quegli standard che “naturalmente” connotavano le classi agiate.
La massificazione dell’università ha distribuito in modo più equo il capitale culturale, svalutando però il suo valore reale.
Nel corso del Laboratorio di co-progettazione XYZ (21-31 luglio 2017) organizzato dalla Scuola Open Source la questione della conversione dei capitali è emersa come nodo fondamentale per immaginare lo sviluppo di una strategia organizzativa e comunicativa per gli anni a venire. La domanda è in fondo la stessa che ci siamo posti all’inizio: perché lo stai facendo, se non ti pagano? Tuttavia lo sviluppo delle risposte ha condotto ad un’elaborazione più precisa dell’interrogazione. Si trattava di comprendere, secondo la teoria dei capitali di Bourdieu, in che modo un evento principalmente retribuito in forma di capitale simbolico e sociale avrebbe potuto produrre capitale economico. Per rendere l’analisi più complessa, è necessario ricordare nuovamente come una delle sotto-categorie del capitale culturale sia l’istituzionalizzazione, ovvero quel rito di passaggio che conferisce dei marchi di autorità (accademica o lavorativa). L’istituzionalizzazione del capitale culturale è una funzione che normalmente viene svolta dalle strutture scolastiche statali o private.
Non bisogna dimenticare che Bourdieu intende la metafora del “campo” sociale in due sensi: da un lato quello fisico, che regola l’interazione delle forze all’interno di uno spazio, dall’alto quello agonistico, che interpreta gli individui e le istituzioni come competitori in area di gioco.
La contrapposizione fra pittura accademica ed impressionisti, o fra letteratura parnassiana e poètes maudits è la stessa che oggi contrappone La Scuola Open Source alle istituzioni scolastiche classiche.
Si tratta di una competizione volta all’acquisizione di una quantità superiore di capitale simbolico.
Il problema è che i concetti sviluppati da Bourdieu sono troppo generici per poter trattare un’opposizione così specifica. Il capitale simbolico della Scuola ha una composizione diversa da quello prodotto dal sistema educativo classico: è trans-disciplinare, più visibile ed allo stesso tempo esterno all’istituzionalizzazione accademica. E tuttavia la ridiscussione dei ruoli e la ripartizione del capitale simbolico che la SOS mette in atto costituiscono un punto di forza, in quanto elementi assenti (o quasi) dal paradigma educativo classico.
In un mercato del lavoro e dell’educazione dominati dalla logica della promessa e della remunerazione simbolica, la convertibilità del capitale simbolico diventa essenziale. Il punto di forza della SOS dovrebbe allora essere legato alla produzione di un tipo di capitale che è scarso o assente nella realtà socio-economica contemporanea.
Concludiamo con alcune osservazioni di carattere politico e psicologico:
Il luogo in cui lo sfruttamento (la sussunzione) del lavoro cognitivo si manifesta nella sua forma più pura non è il lavoro, ma le sue condizioni di accesso. Dispositivi come i concorsi accademici, i colloqui di lavoro e la gestione dei curricola sono diventati molto più importanti del momento stesso in cui l’attività lavorativa si svolge. Disattivare questi dispositivi per mezzo di sistemi di reclutamento collettivi e partecipativi potrebbe essere una prima strategia volta a contrastare lo stato di completo asservimento alle logiche selettive del lavoro e dell’accademia.
Non bisogna sottovalutare il potere della visibilità in quanto valore di scambio. È infatti la visibilità, nei termini di produzione di immagini, narrazioni, pubblicazioni ed eventi che si contrappone direttamente all’istituzionalizzazione. Laddove non è (ancora) possibile competere sul piano giuridico di un’università, si può puntare sull’aspetto mitopoietico, sull’accrescimento del capitale iconico.
Come insegna Rancière, una situazione può essere definita politica nel momento in cui coloro che non hanno parte alla discussione pubblica pre(te)ndono la parola, alterando il normale svolgimento del dialogo fra dominanti e dominati. La presa di parola da parte di coloro che non hanno diritto (leggi = coloro che non dispongono del capitale culturale istituzionalizzato sufficiente), non è semplicemente l’esposizione delle ragioni dei senza parte, ma è il principio dell’alterazione delle regole che determinano le condizioni di possibilità del dibattito.
In ultima analisi la produzione di capitale simbolico nella forma di un’accresciuta visibilità, e di capitale sociale, in quanto aumento della sfera delle reti di collaborazione non sono sufficienti a rispondere alla domanda iniziale circa il senso di un lavoro cognitivo non retribuito in termini di capitale economico.
Il capitale economico può essere intaccato solamente se si immagina la costruzione di una rete di spazi educativi/creativi molto più estesa, una rete che renda possibile una moltiplicazione del capitale sociale e simbolico e che, infine, dovrebbe avere come obiettivo finale lo sconvolgimento delle regole condivise.
Porsi come obiettivo la svalutazione delle pratiche di selezione accademica e lavorativa potrebbe sembrare uno scopo utopico, tuttavia, a nostro avviso, è l’unica strategia realmente competitiva che si può immaginare a fronte di una crisi psicologia, economica e sociale ormai consolidata.
di Tommaso Guariento
Bibliografia
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http://lascuolaopensource.xyz/blog/report-del-corso-visual-studies
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https://catalyst-journal.com/vol1/no2/bourdieu-class-theory-riley
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http://commonware.org/index.php/neetwork/502-lavorare-per-nulla
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